Chi considera scontata la propria vita ha paura della morte, chi considera scontata la propria giovinezza teme l'idea di invecchiare, chi considera scontata la propria salute si sconvolge quando si ammala. Eppure nascita, invecchiamento, malattia e morte sono parte integrante della vita umana. Il Buddismo le chiama le "quattro sofferenze" e tutti siamo destinati a incontrarle, prima o poi.
È importante saperlo. Perché cercare di ignorarle o di evitarle è solo controproducente. Secondo la visione buddista, le quattro sofferenze si possono attraversare senza esserne sconvolti, anzi utilizzandole come occasioni per manifestare appieno la Buddità, assaporando così una felicità più intensa che mai. Quando ci dedichiamo a realizzare la nostra missione di Bodhisattva della Terra, che emergono dalla terra danzando e scelgono di affrontare il proprio karma per mostrare agli altri la via dell'Illuminazione, otteniamo uno stato vitale di grande appagamento e gratitudine per la vita universale, che trascende ogni nascita e ogni morte individuale. E allora la vita diventa solo gioia

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Per affrontare le quattro sofferenze

La filosofia buddista nasce per dare una risposta alle sofferenze connaturate all'esistenza, consentendo a ogni essere umano di sviluppare il coraggio e la saggezza per affrontarle con tenacia e trasformarle in felicità

di Daisaku Ikeda

di Daisaku Ikeda (versione rivista di un articolo pubblicato su DuemilaUno, n. 55)

Cos'è che conferisce all'essere umano vera grandezza e dignità? Non la fama, il potere o la fortuna. Credo che il valore di un individuo dipenda dall'aver vissuto pienamente la propria esistenza, dall'aver deciso di non farsi risucchiare dai dolorosi rigurgiti delle quattro sofferenze di nascita, vecchiaia, malattia e morte, e dall'aver trovato invece il coraggio di continuare a vivere la propria vita riconoscendone costantemente, pur in mezzo a tutte le sofferenze, la sua sacralità. È là che risiede, a mio avviso, la linea di demarcazione fra un avvenire pienamente umano e un avvenire che invece si perde nell'oscurità.

«Persino quando la tigre dell'impermanenza che si avvicina ruggisce - scrive Nichiren Daishonin in Lettera a Niike - noi non la sentiamo e non ne siamo turbati. Quanti giorni ancora sono rimasti alla pecora destinata al macello?» (RSND, 1, 911; SND, 4, 245).
La filosofia buddista nasce per dare una risposta alle sofferenze della vita e della morte poiché questo appare l'unico modo per aprire una via alla loro trasformazione. Ciò emerge con tutta evidenza dalla descrizione dei "quattro incontri", uno dei brani più conosciuti della letteratura buddista, nel quale si narra di come il principe Siddharta, fondatore del Buddismo e in seguito chiamato Shakyamuni, fu portato a rinunciare alla vita secolare. La leggenda racconta che il giovane, uscendo un giorno dalla porta orientale della città per fare una passeggiata, vide un vecchio che si trascinava a fatica; un altro giorno, uscendo dalla porta meridionale, vide un malato magro e debole; un altro giorno ancora, fuori dalla porta occidentale della città, scorse un cadavere e infine, il quarto giorno, lasciando la città dalla porta settentrionale, incontrò un uomo che portava un abito religioso e che si dedicava alla sua pratica con grande dignità. Profondamente colpito da ciò, prese la decisione di lasciare il suo palazzo e di seguire la medesima via. Questo racconto, ricco di metafore, riesce a trasmetterci l'immagine del giovane Siddharta il quale, avendo visto con i propri occhi i quattro tipi di sofferenze, rinuncia alla sua condizione regale per mettersi coraggiosamente alla ricerca di una soluzione.
Come vivere la realtà senza fuggirla? Qual è il senso più profondo della vita? Queste sono le domande che furono all'origine dello sviluppo del Buddismo.

Nell'Ultimo giorno della Legge Nichiren Daishonin rivelò Nam-myoho-renge-kyo quale mezzo per fornire una soluzione fondamentale alle sofferenze umane. Così scrive, nella Raccolta degli insegnamenti orali: «Noi usiamo gli aspetti di nascita, vecchiaia, malattia e morte per adornare la torre [preziosa] che è il nostro corpo» (Buddismo e società, n. 114, p. 45). Ciò che intende dire è che le quattro sofferenze fondamentali conferiscono dignità a ciascuna esistenza. Il travaglio della nascita diventa gioia di vivere. L'angoscia della vecchiaia e della malattia dà profondità alla vita, rafforzando lo slancio e l'apertura verso gli altri. Persino la sofferenza della morte contiene in sé una forza capace di testimoniare della dignità di un essere.
La Legge mistica è la fonte del coraggio e della speranza che permettono a ciascuno di affrontare con tenacia la realtà della vita. È grazie a questa forza continua che sgorga dalla fede che l'individuo è in grado di attraversare le montagne e le valli della sofferenza. «Là gli esseri sono felici e a loro agio» è scritto nel Sutra del Loto (SDL, 303). Questo "luogo" è un mondo conosciuto solo da chi accetta la sofferenza come parte integrante della sua vita e giunge persino a trascendere la morte.

Per "sofferenza della nascita" s'intende l'essere nati. Il solo fatto di venire in vita nel mondo di saha è di per sé fonte di angoscia. Ciò perché, al momento della nascita, un essere umano è già gravato del karma accumulato dall'infinito passato. La sua vita, quindi, nel momento stesso in cui appare, porta in sé le sofferenze che dovrà sopportare.
Ma il Buddismo di Nichiren Daishonin insegna il principio del cambiamento del proprio destino. Se si segue questo principio, le sofferenze della vita si trasformano in felicità assoluta. Nel momento in cui poniamo alla base la fede nel Gohonzon, possiamo trasformare le nostre sofferenze in gioia di vivere e in un'autentica sensazione di appagamento. In questo consiste la vera gioia di vivere.

Se il processo di invecchiamento è penoso, la malattia genera angoscia. Vecchiaia e malattia rubano all'essere umano il vigore smagliante della giovinezza. L'invecchiamento consiste nel rallentamento delle funzioni fisiologiche ed è fonte di diversi mali, la memoria si offusca, la creatività perde la sua forza, la volontà si indebolisce, generando una crescente sofferenza a livello morale. La "sofferenza della vecchiaia", che ci rende sempre più consci dell'indebolimento del livello di energia fisica e psichica, è come una catena d'acciaio che tiene legati, senza alcuna distinzione, tutti gli esseri umani.
La malattia irrompe improvvisa e brutale a turbare l'armonioso funzionamento di corpo e spirito, fino a trascinare nell'abisso della paura e dello smarrimento. La sofferenza più grande sta forse nell'impotenza che ci assale dinanzi all'aggressione della malattia, nonostante gli sforzi disperati per guarire.
Il motivo per cui malattia e vecchiaia sono così temute sta forse nel fatto che, nascosta, si cela l'ombra angosciante della morte. Poiché l'invecchiamento finirà inevitabilmente per portare a questo, con il passare degli anni l'essere umano ha sempre più paura del fantasma della morte. La malattia può avere un esito fatale, ed è per questo che la si teme, che si diventa sue vittime, lasciandosi prendere dalla disperazione. Mi rattrista sapere quanti si trovano nell'incapacità di scacciare le nuvole dell'inquietudine e dell'infelicità. Però io credo fortemente che il Buddismo di Nichiren Daishonin possegga il potere assoluto di dissipare queste zone d'ombra e di diffondere su coloro che soffrono la luce di un sole eterno. Scrive Nichiren [a una discepola preoccupata di invecchiare, n.d.r.]: «Diventerai più giovane e accumulerai fortuna» (L'unità di marito e moglie, RSND, 1, 410; cfr. SND, 6, 126). E ancora [a una persona malata]: «La malattia stimola lo spirito di ricerca della via» (La buona medicina per tutti i mali, RSND, 1, 833, SND, 7, 249). Conosco molte persone che nella loro vita hanno lasciato veri monumenti di vittoria per aver combattuto e sconfitto molte malattie, sfiorando la morte. Ogni ruga del loro viso è una gloriosa testimonianza della loro fede.

La sofferenza della morte è la peggiore di tutte. La morte porta via tutto: ci strappa alle nostre famiglie e agli amici, la ricchezza e il potere accumulati durante la vita svaniscono. In quel momento ci si apre davanti un territorio completamente sconosciuto; di fronte alla morte siamo assaliti da una paura e da un'angoscia indescrivibili. Cosa sarà di noi? Continueremo a esistere, o saremo ridotti al nulla? A differenza delle difficoltà finanziarie o della malattia, la sofferenza della morte è un'angoscia assoluta, al di fuori del controllo umano.
Si dice che al momento della morte ognuno riveda nel suo pensiero tutti gli accadimenti della propria vita, come in un film. In questo senso la morte rappresenta il momento del bilancio della propria vita. Nonostante un'esistenza brillante, si può morire torturati dal dolore e dalla disperazione. Può dirsi vittorioso colui che, avendo affrontato e superato le quattro sofferenze, muore in pace, con profonda convinzione. Ecco perché Nichiren afferma che per guadagnarsi l'ultima vittoria bisogna innanzitutto percepire il mistero eterno della morte.
«Finché siamo in vita - scrive infatti - dobbiamo continuare a recitare Nam-myoho-renge-kyo. Allora, se recitiamo fino al momento della morte, Shakyamuni, Molti Tesori e tutti gli altri Budda delle dieci direzioni verranno da noi immediatamente, proprio come promisero durante la cerimonia sul Picco dell'Aquila [...]. Ci scorteranno sotto la loro protezione fino alla preziosa Terra della Luce Tranquilla. Com'è possibile descrivere una simile gioia?» (La pratica dell'insegnamento del Budda, RSND, 1, 351; cfr. SND, 4, 18).
In un altro brano si legge: «Se dovesse salire adesso al Picco dell'Aquila, si sentirebbe felice come se fosse sorto il sole illuminando le dieci direzioni e si chiederebbe come una morte prematura possa essere così gioiosa» (La buona medicina per tutti i mali, RSND, 1, 834, SND, 7, 250).
Morire in condizioni di buona fortuna e di appagamento è il risultato di una vita pienamente vissuta. La gioia che si prova in quel momento, basata su una profonda consapevolezza della vita e della morte, continuerà a illuminare il "dopo-vita". Chi muore in pace e con profonda convinzione continuerà a mantenere questa stessa condizione vitale fino alla successiva rinascita.

E noi come viviamo il ciclo di nascita e morte? Sommersi dalle sofferenze dei sei sentieri (i primi sei stati vitali) o nel mondo della Legge? Fra queste due condizioni passa la stessa differenza radicale che esiste fra il cielo e la terra. Chi crede nella Legge e nell'eternità della vita, vive e muore in uno stato sublime. Anche nel momento supremo della morte attende impazientemente la sua prossima nascita, immensamente appagato, quasi come se dicesse: «Ho vinto. Non rimpiango nessuna delle mie azioni; non ho alcun rimorso». È proprio la magnificenza di una morte simile che annuncia l'indistruttibile eternità della vita. In ciò ritroviamo il profondo principio buddista con il quale si può salvare la vita umana alla radice. La rivoluzione nella propria vita interiore eserciterà necessariamente un'influenza crescente sulla vita quotidiana di ciascuno e sul proprio ambiente o comunità di vita.

In uno dei suoi scritti il Daishonin afferma: «Saggio non è chi pratica il Buddismo prescindendo dalle questioni mondane, ma chi comprende perfettamente i princìpi che governano il mondo» (Il kalpa della diminuzione, RSND, 1, 995; cfr. SND, 8, 197).
Qui Nichiren sottolinea che è proprio dei saggi, oltre che del Buddismo, conoscere bene le leggi di una società, e più avanti nella lettera cita l'esempio di alcuni governanti che agirono in perfetto accordo con l'insegnamento del Buddismo pur non conoscendolo. Ciò evidenzia l'importanza che Nichiren attribuisce alla riforma della vita umana e della società nella loro dimensione reale.
A prima vista, la relazione fra Buddismo e società non è così evidente. Eppure esiste questo legame, il cui punto d'incontro è costituito dalla vita degli esseri umani. In altri termini, il modo di vivere di ciascun individuo è determinato al tempo stesso dalla sua religione e dalla società alla quale egli appartiene.
Con la fine del mondo antico, religione e storia sono sempre andate di pari passo. Ciononostante, alcune interpretazioni del pensiero religioso hanno inculcato un sentimento di rassegnazione nel cuore di chi è in balia delle sofferenze di nascita, vecchiaia, malattia e morte; altre hanno illuso le persone facendo loro immaginare mondi sublimi al di là della morte; altre ancora hanno alimentato lutti e conflitti, moltiplicando l'angoscia umana.
Il Buddismo di Nichiren Daishonin è una religione per tutti. Il suo punto di partenza sta nel fornire una soluzione alle sofferenze di nascita, vecchiaia, malattia e morte. L'onda così generata ne creerà delle altre, tutte convergenti verso la costruzione di una società basata sulla pace e sulla felicità. È la Legge mistica dagli infiniti significati che si fa realtà.
L'umanità deve oggi confrontarsi con problemi di vario tipo, connessi l'uno con l'altro. Gli esseri umani hanno cominciato a comprendere che questi problemi derivano da un'unica questione relativa alla vita, quella concernente la nascita, la vecchiaia, la malattia e la morte, proprio come da uno stesso tronco partono una moltitudine di rami e di foglie.
Per questo oggi è necessario ritrovare il pensiero religioso. C'è bisogno di una sorgente da cui si sprigioni un flusso incessante di pace e prosperità.

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La realtà dell'impermanenza

L'infelicità e la sofferenza derivano dall'illusione che le cose impermanenti siano permanenti, ma se riusciamo a percepire la Legge mistica in tutti i fenomeni possiamo sperimentare in ogni circostanza la stessa energia creativa, la stessa felicità e la stessa libertà del Budda

Ispirato alla lezione di Katsuji Saito, Trets, agosto 2004

Ispirato alla lezione di Katsuji Saito, Trets, agosto 2004

Le quattro sofferenze di nascita (ed esistenza giorno per giorno), malattia, invecchiamento e morte (in giapponese sho, ro, byo, shi) sono comuni a tutti gli esseri e sono uno degli argomenti più importanti per il genere umano.
Non è esagerato affermare che la maggior parte delle religioni ha dovuto affrontare questo argomento e interrogarsi su di esso. In una scrittura buddista Shakyamuni parla di vincere "le tre forme di orgoglio" - l'orgoglio della gioventù, l'orgoglio della salute e l'orgoglio della vita - in relazione alle sofferenze universali di invecchiamento, malattia e morte. Il Budda spiega che, ubriache dell'orgoglio della gioventù, le persone provano avversione nei confronti di chi è piegato dall'età; ubriache dall'orgoglio della salute, provano avversione per chi è malato, e ubriache dall'orgoglio della vita provano avversione per i morti. Ciò che separò Shakyamuni da queste forme di orgoglio - scrive Ikeda - è che cominciò a interrogarsi su queste sofferenze quando era nel pieno della gioventù, della salute e della vitalità (cfr. L'età della saggezza, Esperia, 2001, p. 52).
Anche il giovane Nichiren, quando iniziò la sua vita religiosa, dichiarò che la prima cosa da studiare era la morte, poi le altre questioni: «Sin dall'infanzia ho studiato il Buddismo con un solo pensiero nella mente. La vita dell'essere umano è fugace. Ogni respiro può essere l'ultimo. Nemmeno la rugiada asciugata dal vento è tanto effimera. Nessuno, saggio o sciocco, giovane o vecchio, può sfuggire alla morte. Per questo il mio unico desiderio fu di risolvere questo eterno mistero. Il resto era secondario» (GZ, 1404).

Secondo il Buddismo le quattro sofferenze sono il vero aspetto della vita, ma la tendenza degli esseri umani è quella di ignorare questa realtà. Scrive il Daishonin: «Chi ha ricevuto la vita non può evitare la morte. Questo è un fatto che tutti gli esseri umani riconoscono, dal più nobile, l'imperatore, fino al più umile cittadino, ma in realtà neanche uno su mille o diecimila prende questa questione seriamente o se ne addolora» (Conversazione fra un santo e un uomo non illuminato, RSND, 1, 86; cfr. SND, 7, 27). E ancora: «Considerare la nascita e la morte con repulsione e cercare di sfuggirvi è chiamato illusione, o un punto di vista dell'Illuminazione acquisita. Vedere e capire la natura originariamente intrinseca della nascita e della morte è chiamato risveglio, o Illuminazione originale. Ora, quando Nichiren e i suoi seguaci recitano Nam-myoho-renge-kyo, realizzano la natura originariamente intrinseca della nascita e della morte»1 (Raccolta degli insegnamenti orali, Buddismo e società, n. 117, p. 45).

Un flusso continuo
Il Buddismo considera l'alternanza di vita e morte come il ritmo originale intrinseco della Legge mistica. L'universo nella visione buddista è governato da un movimento dinamico ciclico che si ripete costantemente: entrare in esistenza, esistere, cambiare, sparire.
Tutti i fenomeni si evolvono in questo flusso costante, niente esiste permanentemente: il concetto delle quattro sofferenze esprime proprio questa impermanenza. L'infelicità e la sofferenza derivano dall'illusione che le cose impermanenti siano permanenti. «Chi considera scontata la propria vita - scrive Ikeda - ha paura della morte, chi considera scontata la propria giovinezza teme l'idea di invecchiare e chi considera scontata la propria salute è sconvolto quando si ammala» (MDG, 2, 322).
La verità è che la realtà è impermanenza. Una persona che non percepisce questa verità soffre.

Il punto di vista del Buddismo sulle sofferenze
Il Buddismo antico identifica l'origine della sofferenza nell'attaccamento ai desideri, secondo quanto enunciato nelle quattro nobili verità: l'esistenza in questo mondo è sofferenza; la sofferenza è generata dal desiderio egoistico; l'estinzione di questo desiderio fa cessare la sofferenza; c'è una via - l'ottuplice sentiero - che porta all'estinzione del desiderio.
Secondo il Buddismo mahayana, invece, i desideri e le sofferenze di nascita e morte non sono ostacoli da eliminare bensì i primi possiedono il potenziale per trasformarsi in saggezza illuminata e le seconde sono il mezzo tramite il quale raggiungere il nirvana.
Il Sutra del Loto fa un ulteriore passo avanti e afferma che c'è una verità più profonda: proprio durante il processo di esistenza, cambiamento, entrata nella non-esistenza possiamo afferrare l'essenza mistica dell'essere - la natura illuminata. Infatti nel Sutra del Loto sono esposti i principi che le illusioni e i desideri sono Illuminazione (bonno soku bodai) e che le sofferenze di nascita e morte sono nirvana (shoji soku nehan), principi che sono iscritti nel Gohonzon. Nichiren dice che la parola soku (che qui viene tradotta con "sono") è Nam-myoho-renge-kyo.
In sintesi non esiste alcuna Illuminazione separata dalla realtà dei desideri - cioè la realtà della vita umana - e non può esserci nirvana al di fuori delle sofferenze di nascita e morte. Nel Gosho Le illusioni e i desideri sono Illuminazione si legge: «Il principio secondo cui le sofferenze di nascita e morte sono nirvana esiste solo nella comprensione che l'entità della vita in tutto il suo ciclo di nascita e morte non viene né generata né distrutta. Il sutra Virtù universale afferma: "Anche senza recidere le illusioni e i desideri o distaccarsi dai cinque desideri, si possono purificare tutti i sensi e cancellare tutte le colpe"» (RSND, 1, 282; cfr. SND, 4, 145).
Il Gran maestro T'ien-t'ai fa l'esempio del cachi acerbo che, esposto al sole, diventa dolce. Il cachi non cambia la sua natura, ma esposto al catalizzatore del sole, che rappresenta la pratica buddista, si trasforma.

L'eternità della vita
Ne Il conseguimento della Buddità in questa esistenza è scritto: «[La vita] è una realtà inafferrabile che trascende sia le parole che i concetti di esistenza e non esistenza. Non è né esistenza né non esistenza e tuttavia manifesta le proprietà di entrambe. È la mistica entità della Via di mezzo che è l'unica vera realtà. Myo è il nome dato alla misteriosa natura della vita e ho quello attribuito alle sue manifestazioni» (RSND, 1, 4; cfr. SND, 4, 5).
Un'esistenza non può essere quindi considerata solo come manifestazione o estinzione. Secondo quanto afferma qui il Daishonin, non basta riconoscere che tutti i fenomeni sono impermanenti, ma bisogna percepire in essi la Legge mistica. Mentre nei due mondi di Studio e Illuminazione parziale ci si ferma al livello della consapevolezza dell'impermanenza dell'universo, questa visione profonda rispetto alla Legge mistica di vita e morte è l'Illuminazione del Budda. Quindi anche se le nostre vite mostrano l'impermanenza, in realtà la nostra vita è eterna: questo è il punto di vista del Budda.
Nel Sutra del Loto è scritto: «Il Tathagata percepisce il vero aspetto del triplice mondo esattamente com'è. Non vi è né nascita né morte, non vi è esistenza in questo mondo né estinzione» (SDL, 298). Spiega Nichiren, commentando questo brano: «Possiamo anche dire che non esistenza ed esistenza, nascita e morte, flusso e riflusso, esistenza in questo mondo ed entrata nell'estinzione sono tutte, senza eccezione, azioni della natura intrinseca che permane eternamente» (Raccolta degli insegnamenti orali, Buddismo e società, n. 117, p. 45).
Il Buddismo del Daishonin ci insegna quindi ad accettare l'impermanenza e a non subirla, consapevoli che la Legge mistica ha il potere e la forza di far evolvere il cambiamento verso il positivo. Non solo: quando ci illuminiamo a questa verità, invece di soffrire per l'impermanenza della vita sperimentiamo le quattro virtù di eternità, felicità, vero io e purezza (jo raku ga jo).

Le quattro virtù del Budda
Nella Raccolta degli insegnamenti orali è scritto: «Quando, mentre siamo in questi quattro stati di nascita, vecchiaia, malattia e morte, recitiamo Nam-myoho-renge-kyo, facciamo sì che essi diffondano la fragranza delle quattro virtù» (Buddismo e società, n. 114, p. 45).
Guardiamo ora alla vita da questa nuova prospettiva. Consideriamo jo, l'eternità: spesso cerchiamo di evitare il cambiamento, vorremmo essere eterni o che le cose intorno a noi fossero immutabili. Secondo il Buddismo invece l'eternità è insita nel cambiamento, è la tendenza della vita a rinnovarsi superando tutti i punti morti in un'ondata inesauribile di energia creativa. Raku è uno stato di felicità indistruttibile, un senso di pace e sicurezza che deriva dallo sperimentare l'eternità della vita. Ga è il vero io, l'indipendenza di cui gode il Budda libero da ogni condizionamento; è un solido senso di identità che è un tutt'uno con la Legge mistica. Jo indica una purezza assoluta non toccata dai desideri e dalle illusioni, è il potere della vita che libera l'io individuale dalle impurità egoistiche.
Ci dobbiamo chiedere allora se consideriamo nascita e morte come un infinito e doloroso ciclo di rinascita nei sei sentieri o come aspetti della Legge mistica dei quali percepiamo la vera natura intrinseca.
Il Daishonin dichiara che nell'istante in cui comprendiamo che la nostra esistenza impermanente è l'entità della Legge mistica, essa viene permeata da queste quattro nobili virtù.
Questa affermazione non è né idealistica né teorica: possiamo provarla, sperimentarla nelle nostre vite. Infatti nel Sutra del Loto è scritto: «La sua malattia svanirà ed egli non conoscerà né vecchiaia né morte» (SDL, 386), e il Daishonin commenta che "né vecchiaia" si riferisce al Budda Shakyamuni e "né morte" a persone come i Bodhisattva della Terra (cfr. Raccolta degli insegnamenti orali, Buddismo e società, n. 121, p. 57).
È estremamente importante - scrive Ikeda - che Nichiren associ la qualità dell'immortalità ai Bodhisattva della Terra, un numero infinito di esseri umani che posseggono nella loro vita la Legge mistica e si sforzano instancabilmente, senza risparmiarsi, di propagarla. Queste sono le persone che egli definisce immortali.
«Quando ci dedichiamo a realizzare la nostra missione di Bodhisattva della Terra - conclude - la nostra vita soggetta alle quattro sofferenze di nascita, invecchiamento, malattia e morte viene pervasa dalle nobili virtù di eternità, felicità, vero io e purezza e diveniamo capaci di liberarci dalle dolorose catene delle sofferenze di nascita e morte. Vivere e morire mantenendo un'eterna devozione alla Legge mistica rappresenta la verità insita nella vita stessa, quella che il Daishonin definisce la "natura originariamente intrinseca della nascita e della morte"» (MDG, 2, 340-41).

Note

1) "Illuminazione acquisita" è usato in contrasto con "Illuminazione originale". Secondo la dottrina dell'Illuminazione originale, l'Illuminazione non è qualcosa che si acquisisce attraverso la pratica religiosa ma esiste nel proprio originale stato di vita. Da questo punto di vista, l'Illuminazione acquisita cade nella categoria dell'illusione, non in quella della vera Illuminazione.

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Nascita, vecchiaia, malattia e morte

Nell'invecchiamento, nella malattia e in prossimità della morte è possibile sperimentare soddisfazione e tranquillità nel profondo del cuore. Facendo quello che fece il Daishonin: combattendo fino all'ultimo istante di vita per la felicità degli altri

Ispirato alla lezione di Katsuji Saito, Trets, agosto 2004

Ispirato alla lezione di Katsuji Saito, Trets, agosto 2004

Se guardiamo agli ultimi anni della vita del Daishonin, comprendiamo bene quale fosse il suo atteggiamento nei confronti dell'invecchiamento e della malattia. Egli scrive: «Sono ormai ventinove anni che predico questa dottrina [la Legge mistica]. Forse a causa dell'esaurimento fisico e dello sforzo mentale causato dai dibattiti quotidiani, dalle persecuzioni mensili e dai due esili, negli ultimi sette o otto anni [qui a Minobu] le malattie legate all'invecchiamento mi hanno colpito ogni anno. Nessuna mi è stata fatale ma, dal primo mese di questo anno, il mio corpo si è particolarmente indebolito e ho la sensazione che la mia vita stia giungendo al termine. Inoltre ho già sessant'anni compiuti. Anche se riuscissi a passare quest'anno, quante probabilità ci sono che riesca a vivere ancora uno o due anni?» (GZ, 1105).
Nichiren è consapevole del peggioramento della sua situazione fisica e non sta cercando di sfuggire a questa condizione. Scrive questa lettera nel 1281, a sessant'anni, un anno prima di morire; nell'ultima frase dice di dubitare che avrebbe vissuto ancora un anno o due, ciò vuol dire che in qualche misura aveva predetto il momento della sua morte.
Anche Josei Toda, secondo quanto racconta il presidente Ikeda, pare fosse consapevole della sua dipartita imminente. «Nell'anno precedente alla sua morte, il secondo presidente della Soka Gakkai Josei Toda predisse che la sua vita sarebbe giunta al termine "nel periodo in cui i ciliegi sono in fiore": "Sarei dovuto morire molto tempo fa. Sto cercando di vedere quanto riuscirò ancora ad andare avanti... La verità è che morirò nell'aprile del prossimo anno, ne sono certo"» (La saggezza del Sutra del Loto, Esperia, vol. 3, p. 251). E così fu. Dopo aver realizzato la cerimonia del 16 marzo, Toda morì il 2 aprile, quando i ciliegi erano in piena fioritura.
Coloro che nell'arco della propria esistenza hanno ottenuto una condizione vitale elevata riescono a prevedere la fine della loro vita, continuando a ripetere il ciclo di nascita e morte nello stato di Buddità. Questo tipo di condizione vitale non è limitata a persone speciali. Chi dedica la propria vita a diffondere il Buddismo con profonda determinazione e convinzione riesce ad avere questo tipo di consapevolezza. Combattendo così ogni giorno, fino alla fine, anche la morte sarà serena. E si potranno provare momenti di grande gioia.

Non sottovalutare la malattia, né considerarla una sconfitta
A causa delle persecuzioni subite il Daishonin dovette affrontare enormi sfide, sia fisiche che spirituali. Durante l'esilio di Sado incontrò condizioni estremamente dure e, stabilitosi a Minobu dopo aver ottenuto il perdono, la sua salute non fu più buona.
Nichiren stesso descrive nel Gosho le sue condizioni fisiche, e parla spesso della malattia associata all'invecchiamento. Dice che all'età di sessant'anni si ammalò gravemente, al punto da essere a malapena in grado di mangiare e non più in grado di scrivere: dettava le lettere che inviava ai discepoli, ed erano tutte lettere molto brevi.
Tuttavia, nonostante fosse così debilitato, quando seppe che Nanjo Tokimitsu si era ammalato prese il pennello e per incoraggiarlo scrisse lui stesso, con una calligrafia piena di energia, La conferma del Sutra del Loto. Nel settembre di quell'anno lasciò Minobu, e arrivò nella residenza di Ikegami dove a ottobre morì.
Scrive Ikeda: «L'idea che ottenere l'Illuminazione significhi vivere per sempre liberi dagli ostacoli e dalle funzioni negative non fa parte del Buddismo. Piuttosto l'immensa condizione vitale del Budda dà la forza interiore e il potere di affrontare senza paura tali dure prove e di trovare in sé la saggezza e la capacità di agire necessarie per superarle» (MDG, 2, 325). La capacità di fare appello a una forte fede per combattere la malattia, senza averne paura ma nemmeno sottovalutandola, corrisponde alla manifestazione dello stato di Buddità.
Questo è l'atteggiamento che dovremmo avere. Alcune persone hanno paura della malattia e cercano di nascondersi, altre diventano arroganti o sottovalutano e rifiutano la gravità della loro condizione di salute, o rifiutano di curarsi, e così la malattia peggiora.
La malattia non è una sconfitta. Come dice Ikeda: «Non si può affermare che qualcuno si è lasciato sconfiggere semplicemente perché si è ammalato. Inoltre saltare alla conclusione che la fede di qualcuno non è corretta soltanto perché si è ammalato equivale a una totale mancanza di compassione. Offrire un caldo incoraggiamento a coloro che combattono la malattia è indice di genuina preoccupazione per gli altri. Quando qualcuno dei suoi discepoli si ammalava, il Daishonin lo incoraggiava con tutto se stesso» (MDG, 2, 326).

Lo stesso desiderio del Budda 
Quando ci si ammala bisogna combattere contro la malattia e contro la funzione demoniaca della malattia. Questo equivale a combattere per kosen rufu. Per il Daishonin «la malattia è "il volere del Budda" perché ci sprona a risvegliare "lo spirito di ricerca della via". La malattia non è altro che una battaglia fra il Budda e le forze demoniache». (MDG, 2, 329).
«Quando la monaca laica Toki, moglie di Toki Jonin, si ammalò gravemente, il Daishonin le inviò ripetute lettere di incoraggiamento cercando di comunicarle speranza e forza. "Anche tu pratichi il Sutra del Loto e la tua fede è come la luna crescente o la marea che si alza. Sii profondamente convinta che la tua malattia non può durare e che non è poss ibile che la tua vita non venga prolungata! Prenditi cura di te e non affliggere la tua mente" (L'arco e la freccia, RSND, 1, 585; cfr. SND, 9, 36). "Non affliggere la tua mente": la cosa importante è avere uno spirito combattivo, lo spirito del devoto del Sutra del Loto. Dice anche: "Prenditi cura di te". È essenziale prendere misure concrete per ristabilire la nostra salute» (MDG, 2, 327).
Nel Prolungamento della vita il Daishonin scrive: «Affrettati ad accumulare il tesoro della fede e sconfiggi velocemente la tua malattia. [...] Un giorno di vita è molto più prezioso di tutti i tesori del sistema maggiore di mondi, quindi, prima di tutto, devi dimostrare la volontà [di guarire]. [...] Inoltre hai incontrato il Sutra del Loto. Se vivi anche un solo giorno di più puoi accumulare una fortuna ancora più grande. Quant'è preziosa la vita!» (RSND, 1, 848-9).
Ikeda osserva che «ovviamente ci sono anche persone di forte fede che hanno una vita breve. Questo ha sicuramente un significato profondo: il valore di una persona non si determina dal numero di anni che ha vissuto. Come afferma il Daishonin: "È più importante vivere un solo giorno con onore piuttosto che vivere sino a centoventi anni e morire in disgrazia" (I tre tipi di tesori, RSND, 1, 755; cfr. SND, 4, 177)» (MDG, 2, 328).
Lo scopo fondamentale della longevità e della salute è poter recare beneficio agli altri nella società con le nostre azioni compassionevoli, anche se ovviamente si prega per avere buona salute e vivere a lungo anche per la nostra stessa felicità.

Gli ultimi anni di vita del Daishonin
L'8 settembre 1282, dopo un soggiorno di nove anni, Nichiren lasciò il monte Minobu gravemente malato, col pretesto di andare alle terme di Hitachi per curarsi. Apparentemente lasciò Minobu perché i suoi discepoli gli avevano raccomandato di sottoporsi alle cure termali, ma la sua vera intenzione era recarsi alla residenza di Ikegami dove, a distanza di circa un mese, morì. Erano le otto di mattina, nell'ora del drago. Secondo la tradizione, i ciliegi fiorirono fuori stagione. Di certo questa leggenda ha origine dal fatto che il Daishonin morì in un tiepido giorno di sole che ricordava la primavera.
Scrive Ikeda: «Ho l'impressione che prima di lasciare Minobu il Daishonin avesse previsto che la sua vita si sarebbe conclusa a Ikegami. Quando il Budda Shakyamuni partì da Rajagriha (capitale dell'antico regno indiano di Magadha) per il suo ultimo viaggio, prima di morire disse ai suoi discepoli: "Tenete bene a mente o fratelli la mia esortazione: 'La decadenza è intrinseca in tutte le cose composte! Adoperatevi con diligenza per la vostra salvezza!'"» (MDG, 2, 337).
Secondo Ikeda, gli ultimi quattro anni di vita di Nichiren furono gli anni migliori, perché proprio in quel periodo il Daishonin realizzò lo scopo della sua esistenza: l'iscrizione del Dai-Gohonzon per la felicità di tutta l'umanità. Anche l'ultimo viaggio a Ikegami - dove diede le disposizioni definitive per assicurare la continuità dei suoi insegnamenti - aveva un obiettivo preciso: mostrare ai discepoli come si dovesse vivere mantenendo uno spirito combattivo fino in fondo.
Il capitolo finale della vita è quello cruciale. Tutto sta nell'essere felici nei nostri ultimi anni e provare una sensazione di massima soddisfazione e tranquillità nel profondo del cuore, una condizione che si ottiene coltivando lo spirito di lottare fino alla fine per la felicità degli altri.

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L'esempio di Nichiren

Le quattro sofferenze, la realtà dell'esistenza, sono le sole occasioni per allenarsi a far emergere la Buddità dalla nostra vita







Questo speciale inizialmente doveva trattare solo il tema della malattia, sia mentale che fisica. 
Poi, studiando e discutendo su come parlare dell'argomento, abbiamo innanzitutto valutato che il Buddismo non considera la malattia come un problema diverso dagli altri, da affrontare in un modo specifico. Inoltre, ciò che fa veramente soffrire della malattia è il suo legame con l'idea della morte. Abbiamo allora pensato che il tema centrale fosse l'impermanenza della vita, ciò che il Buddismo analizza attraverso le quattro sofferenze di nascita, invecchiamento, malattia e morte.



Per chiarire alcuni punti importanti abbiamo posto le seguenti domande a Tamotsu Nakajima, direttore generale dell'Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai.



Cosa significa affrontare la sofferenza? 
Spesso si parte dalla ricerca di comandamenti per eliminare la sofferenza: per non creare effetti negativi non fate questo, o quest'altro... Ma la sofferenza non si può eliminare: eliminare la sofferenza equivale a eliminare la vita. Anziché usare l'espressione "affrontare le sofferenze", dovremmo parlare di "affrontare la vita".



Per esempio, riguardo alla malattia il Gosho dice di sviluppare uno spirito combattivo per guarire, ma d'altra parte sappiamo che la malattia fa parte della vita. Quindi cosa vuol dire affrontare e trasformare? Aspettarsi di guarire? 
Se mi chiedete quale atteggiamento deve avere una persona di fronte alla propria malattia, vi rispondo senza dubbio che dovrebbe pregare per la sua guarigione, per cosa altro altrimenti?



Rispetto a un grave problema di malattia di qualcuno che ci sta vicino, spesso il dilemma è: recito Daimoku perché guarisca, recito Daimoku perché sia felice, recito Daimoku perché possa affrontare bene la morte, perché non soffra. Che atteggiamento dovremmo avere? 
Ma facendosi tutte queste domande si affronta questo tema da un punto di vista parziale e personale, che prescinde dalla visione buddista. 
Qual è la maniera "giusta"? Noi stiamo cercando di comprendere profondamente ciò che insegna il Buddismo, il fatto che la vita non è statica, ferma, ma scorre attimo dopo attimo. L'attimo passato non si può riprendere. Il punto centrale è dunque come affrontiamo il momento presente, se siamo dipendenti o indipendenti dalla situazione che stiamo vivendo. Quindi, in questo caso, il problema non è la malattia, ma la condizione vitale di chi è malato. 
Istante per istante noi affrontiamo la vita, mettendo continuamente nuove cause attraverso le quali possiamo migliorare o peggiorare la situazione. Tutto dipende da cosa tiriamo fuori da quella situazione. 
Dobbiamo chiederci se stiamo cercando di vivere ogni attimo con l'intenzione di far emergere la Buddità, la gioia, affinché ogni attimo possa causare una prossima gioia, una prossima fortuna. Penso che la crescita che noi intendiamo non sia relativa ai soldi, alla guarigione, o ad altro. La crescita che noi intendiamo è la ricerca del miglioramento personale, come esseri umani: continuando ad affrontare la vita nasce la gioia di vivere. 
Noi stiamo utilizzando il Buddismo per imparare a vivere. Dovremmo arrivare a stare bene non perché non ci siano problemi, ma perché nulla ci disturba. Arrivare ad affrontare tranquillamente ogni situazione che troviamo davanti a noi. Affrontandola una prima volta impariamo ad affrontarla meglio la volta successiva. Senza fare esperienza non capiamo. 
Il Daishonin ci insegna a non fermarci davanti ai problemi, ma ci incoraggia ad andare sempre avanti utilizzando il Daimoku, il Gohonzon, e facendo shakubuku. In questo modo otteniamo sicuramente l'Illuminazione, la felicità. Non la felicità che pensiamo noi, ma quella che intende Nichiren, di gioire indipendentemente dalle circostanze. Invece noi pensiamo alla guarigione, alla ricchezza... per felicità intendiamo non soffrire.



Nel Buddismo quindi non c'è un'alternativa tra sofferenza e felicità, non sono l'una il contrario dell'altra. 
Secondo il Buddismo tanto hai sofferto, tanto sai gioire. Il punto è come utilizzare quello che hai. 
Nichiren Daishonin insegna a utilizzare la vita per far emergere la Buddità. Quindi la vita non è sofferenza bensì la possibilità di realizzare attraverso la sofferenza. Questa è la grande novità del Buddismo del Daishonin.



Se ci si allena a far emergere la gioia in ogni istante, allora quando ci si trova di fronte a sofferenze più forti si sa quello che si deve fare, cercare quella gioia, quella forza, attraverso il Daimoku. Da una parte si vorrebbe essere sempre pronti, però siamo comuni mortali... 
Bisognerebbe smettere di utilizzare l'espressione "comuni mortali". Altrimenti si rimane sempre comuni mortali. Per diventare Budda dovremmo pensare che maggiore è la difficoltà maggiore è l'occasione per manifestare questa condizione vitale. 
Ma per diventare "bravi" ci vuole allenamento, e tutte le situazioni della vita sono l'occasione per allenarci a far emergere la Buddità. Come si fa a tirare fuori la Buddità? Passando dal nostro punto di vista al punto di vista buddista. Il Buddismo dice che la vita è bella, e io decido di farla diventare bella. E allora lo diventa. Dipende da quanto sono capace di trasformarla, e per rafforzare questa mia capacità utilizzo il Daimoku: la forza del Budda e la forza della Legge dipendono dalla forza della fede e dalla forza della pratica. Senza fede né pratica non si realizza nulla. 
L'unica maniera di praticare bene è quella di sforzarsi continuamente di migliorare. Non c'è un momento in cui possiamo dire che stiamo davvero praticando correttamente. 
Non mantenere questo sforzo continuo di praticare correttamente equivale a disprezzare la Legge. Può sembrare troppo severo, ma questa è la Legge di causa ed effetto, nient'altro. Per questo non possiamo fermarci, non perché abbiamo paura di chissà cosa possa succedere.



Ma cosa significa "praticare correttamente"? 
Scrive il Daishonin: «Adesso nell'Ultimo giorno della Legge, il Daimoku che recita Nichiren è diverso da quello delle epoche precedenti. È Nam-myoho-renge-kyo che comprende la pratica per sé e la pratica per gli altri» (Le tre grandi Leggi segrete, cfr. WND, 2, 986). 
Qui il Daishonin intende, per pratica buddista, sia recitare Daimoku sia fare shakubuku. La pratica solo per sé è un controsenso. È come aver ricevuto un bene enorme, universale, e utilizzarlo solo per sé. Per questo chi non fa shakubuku non sta praticando bene, perché tiene per sé tutto il grande potere del Gohonzon.



Come si fa a fare shakubuku? 
Da una parte si parla della pratica, si dialoga, ma ciò che veramente conta è quanto desideriamo la felicità della persona con cui stiamo parlando. Il Daimoku che recitiamo per quella persona. 
Nel Gosho c'è scritto: «Se la compassione di Nichiren è veramente grande e omnicomprensiva, Nam-myoho-renge-kyo si diffonderà per diecimila anni e più, per tutta l'eternità» (Ripagare i debiti di gratitudine, RSND, 1, 658; cfr. SND, 2, 216). Qui il Daishonin si riferisce a una condizione vitale che abbraccia tutte le persone di tutti i tempi. Dice ancora: «Che gioia esser nati nell'Ultimo giorno della Legge e aver potuto partecipare alla propagazione del Sutra del Loto» (Lettera a Niike, RSND, 1, 910; cfr. SND, 4, 243). Questo è il suo atteggiamento rispetto al fatto di vivere nell'epoca peggiore, mentre noi siamo sempre influenzati dalle situazioni, e quindi soffriamo per la maggior parte della vita. 
Ma sebbene dal punto di vista del karma ciascuno di noi è diverso, dal punto di vista della Legge abbiamo tutti le stesse potenzialità di Nichiren. Come si può riuscire a provare e a mantenere quella gioia e quel desiderio di far stare bene tutte le persone? Ognuno dovrebbe credere di avere dentro di sé la stessa forza del Daishonin e alimentarla attraverso la propria pratica.



Soffrire per le difficoltà non deriva anche dal fatto di non riuscire a credere che nella nostra vita ci sono infinite potenzialità? L'esperienza ci mostra che quando poi i problemi si affrontano si scoprono delle risorse di sé che prima non si pensava di avere. 
La nostra vita procede in base alla nostra comprensione. E la nostra comprensione è limitata. Per comprendere di più, per scoprire di più, è importante andare oltre il limite della nostra attuale comprensione, e ciò è possibile solo attraverso la fede, che si esprime attraverso la preghiera al Gohonzon. 
Per togliere il limite bisogna credere. È strano: se ci credi funziona, se non ci credi non funziona. 
Le persone più intelligenti potrebbero incontrare più difficoltà, da questo punto di vista, perché la "testa" funziona per prima e quindi impedisce di credere. Anche Shariputra, il discepolo del Budda più saggio e più intelligente, ottenne l'Illuminazione quando riuscì a credere. Con la "testa" non si può ottenere l'Illuminazione, solo con la fede. 
Nella Soka Gakkai giapponese ho incontrato tante persone contente, proprio contente della vita. Soprattutto le donne. Si svegliano la mattina e sono contente di alzarsi. Viene da chiedersi come facciano, perché siano così contente... La risposta è che hanno una pratica sincera e si sforzano continuamente. Quando si hanno tante cose da fare, se nasce un problema lo si affronta tranquillamente. Se invece le cose vanno bene, davanti a una difficoltà nasce subito la sofferenza. 
 
Fa bene a tutti recitare Daimoku? Anche a persone con malattie mentali? 
Il Daimoku fa bene a tutti... forse fa male ai demoni. Nichiren scrive, nel Gosho Come coloro che inizialmente aspirano alla via possono conseguire la Buddità attraverso il Sutra del Loto: «Così, quando con la bocca recitiamo la mistica Legge, la nostra natura di Budda viene richiamata e immancabilmente emergerà. La natura di Budda di Brahma e Shakra, richiamata, ci proteggerà e la natura di Budda dei Budda e dei bodhisattva, richiamata, gioirà. [...] Tutti i Budda delle tre esistenze hanno anch'essi conseguito la Buddità grazie ai cinque caratteri di Myoho-renge-kyo. Questi cinque caratteri sono la ragione dell'avvento nel mondo dei Budda delle tre esistenze; sono la mistica Legge con la quale tutti gli esseri viventi possono raggiungere la via del Budda. Comprendi bene il significato di tutto ciò e, sulla strada per il conseguimento della Buddità, recita Nam-myoho-renge-kyo senza arroganza o attaccamento a idee preconcette» (RSND, 1, 789; cfr. SND, 8, 35). 
Quindi il Daimoku è soltanto positivo. A volte si dice che fa male recitare tanto Daimoku per chi ha problemi mentali, e quindi si consiglia di recitare poco e lentamente. Sì, può anche essere vero che recitando meno Daimoku si abbia una reazione minore, e quindi può sembrare che anche il problema sia minore, ma è solo apparenza. In realtà così non si risolve nulla. Non possiamo abituarci a evitare di affrontare le cose, deviando verso soluzioni temporanee che non risolvono nulla. Quasi come se all'interno del Buddismo si possano aggiungere regole e formulari dove non ce ne sono. La Legge di causa ed effetto è una regola assoluta, è inutile metterne altre. 
Il vero problema, nel caso del disturbo mentale, non è il Daimoku ma le azioni. Bisogna vedere situazione per situazione, aiutare e sostenere costantemente le persone con questo tipo di problemi. Se si hanno difficoltà mentali come si può fare da soli?



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La palestra del Budda

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di Alessandra Spila

Un po' di tempo fa un compagno di fede mi racconta che cosa ha intenzione di fare: vuole tappezzare la sua casa con dei post it con scritto il nome di tutti quelli che nella vita lo hanno ostacolato, rifiutato, sminuito, offeso, in poche parole tutti quelli che lo hanno fatto soffrire. Una volta raccolti dalla sua memoria quei nomi e ricordato quei volti, vuole ringraziarli. Sì, ringraziarli. Perché è grazie a loro che è diventato quello che è. E mi dice pure: «Pensa se fossimo in grado di farlo con tutto ciò che ci fa male». Lì per lì la cosa mi diverte, comincio a fantasticare sulla possibilità di farlo anch'io. Ma poi mi blocco. In fin dei conti, penso, è solo un modo, simpatico e originale ma niente di più, di prenderla bene, di dare un significato positivo a quello che non sembra affatto averne. Mi chiedo perché, con un po' di imbarazzo e ritrosia. Scopro, anzi riscopro, il mio rapporto con tutto ciò che mi procura dolore. E mi rendo conto di vedere di "buon occhio" al massimo le difficoltà passate, quelle che grazie alla pratica buddista ho già trasformato, portandomi dei benefici che non avrei mai immaginato. Mentre quelle in corso, le "gatte" ancora da "pelare", stento a considerarle occasioni di crescita. Eppure voglio credere anche ora a quello che insegna il Buddismo, che mi dice che alcune volte soffrire vuol dire già stare bene: se si è disgustati dal lezzo della latrina, significa che finalmente siamo in grado di riconoscerlo. E quindi possiamo desiderare di cambiare. Ammetto con me stessa che certe cose non avrei neanche pensato di poterle notare in passato. Allora forse queste sofferenze sono già di per sé un beneficio. È il mio primo passo per accettarle.
Ma non mi basta, devo approfondire. Come sempre la soluzione è a due passi da me, nelle parole del presidente Ikeda (Gli eterni insegnamenti di Nichiren Daishonin, (Esperia, pp. 60-61), più precisamente nel paragrafo intitolato La sofferenza è la materia prima della felicità. Apro a caso e leggo: «Certo, per chi non ha fede nella Legge mistica la sofferenza è sofferenza, ma per chi possiede una forte fede ha la precisa funzione di farci diventare ancora più felici». E più in là: «Lasciarsi andare vuol dire denigrare il mondo di Buddità presente nella nostra vita ed equivale a offendere il Gohonzon. Lo stesso dicasi nel caso in cui si è già deciso che non c'è più nulla da fare per quel problema o per quella sofferenza particolare». Del resto, però, non è sempre facile, mi dico. Anche dopo anni di pratica può capitare di cadere nell'illusione. Di lasciarsi andare, magari per paura o per orgoglio. Si finisce col mettersi a provare molte altre strategie, prima di rivolgersi all'unica che illumina e trasforma, quella del Sutra del Loto.
Sarà per questo che la malattia risveglia lo spirito di ricerca? Solo quando la fede appare l'unico mezzo, si mette da parte la mente? Ma non voglio attendere di ammalarmi per affidarmi completamente al Gohonzon, alla mia Buddità. Ci penso su e mi è chiaro che la prima cosa che ho da fare è assumermi la responsabilità del mio dolore, scacciando la tentazione di guardare altrove, anche se "fuori" mi sembra che ce la mettano tutta. So che se voglio vincere sulle circostanze negative non mi resta che sforzarmi di approfondire la fede, con la convinzione che potrò ottenere una condizione vitale molto più alta di quanto avevo immaginato e che i benefici materiali mi sembreranno addirittura poca cosa in confronto. Questa è la mia occasione di crescita, questo il bello della mia sofferenza.

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Il bello della sofferenza

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di Gianna Mazzini

Cosa cambierebbe nei miei gesti se sapessi che questo è uno degli ultimi istanti della mia vita?
Se avessi due minuti, due giorni, o tre mesi, se avessi comunque poco tempo?
La lista delle cose da fare sarebbe certamente diversa. Cambierebbe questo: l'ordine delle priorità. Non direi più: «Tanto c'è tempo». Forse comincerei da qualche conversazione che mi fa fatica e che rimando, farei quel tipo di cose essenziali invece di dare precedenza al dentista e a tutte quelle scadenze che mi sembrano la vita, cercherei di fare la lista di tutti quei «ti voglio bene» che si sono accatastati e nascosti in gola, perché «tanto c'è tempo». Correrei da mio padre a dirgli grazie per tutto quello che ha fatto per me, ora che ancora può sentirmi, che c'è e potrei vedere la gioia nel suo sguardo. Farei tutte quelle cose che ho desiderato per tanto tempo senza permettermi di realizzarle davvero, vedere i ghiacci del Nord, andrei per la vita come protesa, forse con tanta paura ma comunque protesa. Seguirei i desideri senza domarli. Rintraccerei quella compagna di scuola che, trent'anni fa, mi ha dato davvero tanto in un momento difficile della mia vita. Non sa che le sono grata, perché non gliel'ho mai detto. Metterei al primo posto le cose che contano e al secondo le cose che servono. Non ci sarebbero urgenze se non assaporare ogni istante della vita che resta: una certa luce che viene a svegliarmi la mattina e mi allarga la bocca fino a farmi sorridere. Praticherei sbilanciata, senza soluzioni già fatte, con quella sorpresa e quell'incanto di quando non si sa, quell'incanto che si riesce a tenere vivo e presente solo quando siamo piccoli, piccole o quando ci si innamora. Penserei piuttosto alle cause che metto e non a misurare l'ampiezza e la portata degli effetti. Inseguirei la bellezza anche negli spazi stretti, nelle piccolissime cose che sono le migliori a svelarne il senso. I rumori insolenti che urlano la vita, i temporali, che belli i temporali così poco contenuti, così tanto smodati. Ma anche il sole, quello che brucia ma anche quello pallido. E anche il silenzio, che è così bello, perché è capiente e consente agli altri suoni di esistere e anzi li esalta. Vorrei dire tanti grazie a chi mi è stato accanto: grazie per la pazienza, grazie per l'amore di avermi accolta per come sono e avermi aiutata ad essere di più. Vorrei scrivere di quello che conta, per onorare il valore delle parole. Dire quello che conta, per onorare la voce. Fare quello che conta, per onorare la vita. Vorrei dire a chi amo e a chi mi ama di continuare a vivere gioendo, anche senza me.
Ecco: voglio esserne capace ora che sto bene, ora che il tempo c'è. Che io ci sono.
E mentre scrivo ho paura. Di cosa? Di non essere capace di fare quello che scrivo. Di non esserne capace senza essere in bilico. Poi sento, so, mi ricordo il potenziale di Nam-myoho-renge-kyo. Forse non ne sono capace ma voglio costruire il desiderio di diventarlo.
Partendo da ora. Da questo incantevole adesso.

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Questo incantevole adesso

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di Lodovico Prola

«Secondo il principio buddista dell'origine dipendente [...] le sofferenze di invecchiamento e morte sorgono dall'oscurità innata o ignoranza che esiste in ogni individuo. Il Budda insegna che, estinguendo tale ottenebramento interiore, queste sofferenze possono essere superate» (D. Ikeda, L'eredità della Legge fondamentale della vita, Esperia, 2008, p. 7). Alla luce del Buddismo la sofferenza, in ultima analisi, deriva dal non comprendere (o appunto ignorare) la vera natura della vita. Poiché ha diradato le nubi dell'ignoranza, il Budda attraversa traboccante di felicità il ciclo di nascita, invecchiamento, malattia e morte. Tutta l'esistenza, così la vita come la morte, è vissuta con gioia. «È credendo nel potere fondamentale della nostra vita e manifestando la mistica verità intrinseca dentro di noi che potremo trionfare sulle sofferenze di nascita e morte» (Ibidem, p. 26).
Ma è davvero possibile affrontare la morte, innanzitutto quella dei nostri cari ancor prima della propria, e provare gioia? Occorre essere persone straordinarie o questo "miracolo" è alla portata di noi tutti? E che natura può avere una simile gioia di fronte ad un avvenimento tanto devastante?
Permettetemi di raccontare brevemente la mia esperienza che nel tempo ho scoperto essere simile a quella di tanti altri miei compagni di fede.
Pochi anni fa ho perso nel giro di un anno i miei genitori. Sono deceduti entrambi in seguito a un periodo di malattia. Questo "mi ha costretto" a recitare Daimoku intensamente e a lungo prima della loro morte. Pur essendo buddista da diversi anni, credo di non aver mai praticato così tanto come in quel periodo.
Ricordo con particolare nitidezza quando la sera andavo a trovare mia mamma in rianimazione dopo aver passato il giorno a recitare Daimoku in ogni fazzoletto di tempo disponibile. La sala d'aspetto era una vera e propria valle di lacrime. Ero circondato da parenti più o meno disperati, più o meno annichiliti dal senso di impotenza. Io mi sentivo un pesce fuor d'acqua: vivevo una strana sensazione fatta di speranza, di soddisfazione priva di rimpianti, perché tutto sommato stavo lottando senza risparmiarmi, e soprattutto di gratitudine per la vita. Gratitudine nonostante tutto!
«Quando c'è da soffrire soffri; quando c'è da gioire gioisci. Considera allo stesso modo sofferenza e gioia e continua a recitare Nam-myoho-renge-kyo. Come potrebbe non essere questa la gioia senza limiti della Legge? Rafforza il potere della tua fede più che mai» (Felicità in questo mondo, RSND, 1, 607; cfr. SND, 4, 157).
Certo, alla morte dei miei genitori ho provato una grande tristezza, ma non è questo il ricordo che porto nel cuore. Ancora più profonda della tristezza ho sentito una grandissima gioia, una grandissima gratitudine per la vita: mai come allora ho sentito che la vita è bella.
È come se la tristezza increspasse il mare in superficie, alzando a tratti delle onde. Ma più in basso c'era l'oceano della «gioia senza limiti della Legge».
E che bello sentire vicini in quel momento i miei compagni di fede!

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Un "miracolo" alla portata di tutti

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Nei miei ventitré anni di pratica ho fatto naturalmente molte esperienze, ma qui voglio raccontare degli ultimi due anni, e precisamente a partire dal 16 marzo 2007, il giorno in cui mi è stato diagnosticato un tumore al cervello. Questo tumore mi aveva fatto perdere il cinquanta per cento dell'udito e ogni tanto mi procurava disturbi di equilibrio e nausea. Inizio quindi a fare tutte le visite di routine prima di affrontare l'operazione - la quale non è senza rischi, perché può procurare la perdita totale dell'udito e la semi-paresi facciale - ma nei primi giorni di giugno ho un forte mal di gola che non passa neanche con gli antibiotici. Una biopsia della tonsilla destra dà un risultato scioccante: tumore maligno al terzo stadio, il penultimo stadio della pericolosità dei tumori. Devo essere operata d'urgenza. Il tumore in testa diventa improvvisamente una piccolezza in confronto all'altro.
Vengo operata tre volte in meno di un mese. Oltre alla tonsilla mi viene asportata l'ugola, un pezzo di lingua e quattordici linfonodi, uno dei quali con le metastasi. La terapia dopo l'operazione: sei settimane di radioterapia, delle quali due anche di chemio, tutti i giorni tranne il sabato e la domenica. La prognosi dei medici è: probabile difficoltà a deglutire e ad articolare, probabile cambiamento del timbro della voce (in voce nasale) e caduta dei capelli. Un'invalidità dell'ottanta per cento.
Decido immediatamente di fare un'esperienza di fede per poter incoraggiare veramente tante persone, e mi metto subito degli scopi: non perdere i capelli e neanche la voce, dopo le cure andare in una clinica di riabilitazione e lì, dopo tre settimane di degenza, riuscire a cantare per i pazienti!
I medici sono un po' scettici, e mi dicono che forse avevo esagerato con le mie aspettative... ma io volevo dimostrare a me stessa (e ai medici in particolare) quanta forza ha la mia fede.
Devo anche dire che di professione faccio la cantante e quindi la voce per me ha un'importanza fondamentale. Inoltre il Buddismo insegna che la voce svolge il lavoro del Budda!
Quando sono arrivata in clinica per la riabilitazione non avevo neanche un po' di voce, e recitavo Daimoku solo nei miei pensieri, oppure sussurrando. Dopo un paio di giorni sono andata in un bosco e ho provato a far uscire dalla mia voce qualche tono di una canzone africana dal titolo Nenam, che significa "madre". E la voce è tornata, improvvisamente. Ero così emozionata che ho iniziato a piangere. Alla fine della degenza, dopo poco più di tre settimane, ho cantato questa canzone per i pazienti della clinica.
Mia sorella e mia figlia, che vivono a Roma, la mia città, mi hanno sostenuta con il loro Daimoku, e in quel periodo anche mia madre di 84 anni ha iniziato a praticare con il desiderio che mi ritornasse la voce. Mia figlia, inoltre, che aveva inviato al presidente Ikeda la nostra esperienza di fede, ha ricevuto da lui per regalo il libro The music of the cosmos, e per questo la ringrazio, perché la sua felicità ha reso felice anche me.
Dopo la riabilitazione ho potuto anche lavorare come doppiatrice: il mio timbro di voce è rimasto quello di sempre e mi sono anche caduti pochissimi capelli!
Questa malattia mi ha permesso di sperimentare nuovamente la forza della fede e del Daimoku, e mi ha dato anche la possibilità di ricominciare con coraggio a mettere in pratica uno dei principi base del Buddismo, quello di trasformare il veleno in medicina!
A settembre 2008, a meno di un anno di distanza dalla fine delle cure di riabilitazione per il cancro alla gola, ho iniziato a frequentare un corso di computer ma mi sono accorta di avere problemi di concentrazione, un suono permanente all'orecchio, fitte alla testa e una stanchezza infinita. Ho capito che era arrivata l'ora di farmi coraggio e affrontare anche l'operazione per asportare il tumore al cervello.
Sono riuscita a ottenere in poco tempo un appuntamento con un rinomato neurochirurgo di Münster (specializzato proprio per questo tipo di tumore): l'attesa poteva essere molto, molto più lunga... E ancora più fortuna ho avuto per il fatto che è stato subito stabilito il giorno dell'intervento: il 2 aprile 2009. Il mio primo pensiero è stato: «Sono davvero fortunata a condividere con il maestro Toda una fase così importante della mia vita!» (2 aprile 1958 morte di Josei Toda, n.d.r.).
L'operazione è stata un successo: una lievissima e quasi impercettibile semi paresi del viso che già a distanza di due settimane dall'intervento è pressoché scomparsa! Il nervo acustico è stato mantenuto, il suono all'orecchio è cessato e mi sono ripresa da questa lunga operazione così velocemente che i medici erano sbalorditi!
La mia compagna di stanza, che ascoltava il mio Daimoku, aveva visto un film con Tina Turner dove aveva sentito il suono di Nam-myoho-renge-kyo: ho avuto quindi l'opportunità di parlare anche a lei della pratica!
Sono veramente grata a tutte le persone che mi hanno sostenuta, e in particolare a tutta la mia famiglia, che in questa fase dolorosa e difficile della mia vita mi è sempre stata vicina. A Colonia, la città dove vivo, il 2 e il 3 aprile è stata organizzata una catena di Daimoku per il successo dell'operazione, e tutta la mia famiglia si è trasferita a Münster per venirmi a trovare quotidianamente in ospedale. Proprio di recente davanti al Gohonzon mi sono commossa pensando a una frase di Nichiren Daishonin che dice: «Più preziosi dei tesori di un forziere sono i tesori del corpo, e prima dei tesori del corpo vengono quelli del cuore. Dal momento in cui leggerai questa lettera sforzati di accumulare i tesori del cuore! » (I tre tipi di tesori, RSND, 1, 755; cfr. SND, 4, 177).
(A. V.)

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La voce svolge il lavoro del Budda

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Quando comincio a praticare nel 2006 ho 36 anni. Mi avvicino al Buddismo nel momento in cui la mia storia d'amore si avvia al capolinea nonostante il mio desiderio di costruire una vita insieme. Comincio subito a recitare con l'obiettivo di consolidarla.
In realtà c'è ben altro da mettere a posto... Soffro di anoressia da quando ho 27 anni. Da allora il cibo rappresenta il centro della mia esistenza. È nello stesso tempo un pericolo da allontanare e un rifugio in cui nascondermi. Ho il terrore di ingrassare, voglio essere filiforme a tutti i costi. Penso che in questo modo il mondo non mi possa rifiutare. Così calcolo le calorie di ogni alimento, solitamente scelgo verdure, ne consumo quantità abnormi. Altre volte non resisto alla fame, mangio di tutto. Ma non sopporto l'idea di trattenere cibi calorici: devo vomitarli. Anche la mia vita sociale è fortemente condizionata dall'anoressia. Quando pranzo e qualcuno mi invita a cena, rifiuto per non mangiare di nuovo. Oppure accetto, ma dico di avere la nausea e bevo soltanto. La mia ossessione è tale che la sola vicinanza di altre persone mi spaventa: vedo in loro la possibilità di essere sviata dall'obiettivo impossibile di essere filiforme. La malattia è parte integrante di me, sono io, non ci faccio più caso. Ecco perché, quando comincio a recitare, nel mio Daimoku non c'è mai il desiderio di guarire.
Una mattina mi sveglio, come mi capita spesso, oppressa dall'angoscia: pochi soldi, un talento che non trova la sua legittima collocazione, una relazione sentimentale lontana anni luce, il pensiero della mia famiglia distante. Lo slogan della Soka Gakkai del 2008 recita: Anno delle persone di valore e dell'espansione. Mi rendo conto di averlo sempre considerato un'opportunità per gli altri, e invece sento il desiderio di farlo anche mio. Penso: «Voglio respirare la grandiosità della mia vita, voglio manifestare il mio valore per la causa di kosen-rufu. Ho scelto io questa strada. È tempo che me ne assuma la responsabilità». Riformulo i miei obiettivi. Sono quattro, chiarissimi. Recito tantissimo Daimoku, partecipo sempre più alle attività buddiste, quattro miei amici cominciano a praticare. Desidero sentire il cuore di Sensei e comprendo, commossa, che lui crede nella mia vittoria.
Sull'onda dell'entusiasmo un giorno infilo le scarpe da tennis e, promettendo costanza e dedizione ai miei propositi di crescita, esco per fare jogging. Lo faccio la sera successiva, poi devo fermarmi: l'acido lattico mi procura dolore alle gambe. Dopo qualche giorno la gamba destra si ristabilisce, ma la sinistra mi fa ancora male. Un medico mi prescrive degli antidolorifici. Intanto accetto una nuova proposta di lavoro: uno spettacolo a Napoli, due mesi fuori. Giorni intensi: raggiungere il teatro è faticoso, raggiungerlo zoppicando lo è di più. Quando passerà la mia infiammazione? Recitando Daimoku avverto le parole del Gosho: «Se non sei disposta a fare sforzi per guarire, sarà molto difficile curare la tua malattia» (Il prolungamento della vita, RSND, 1, 848; cfr. SND, 4, 90).
Voglio vedere che c'è nella mia gamba. Il risultato della radiografia è: frattura del collo del femore, ipotesi di protesi all'anca o, nel migliore dei casi, impianto di chiodi e degenza minima di due mesi. Sono disperata ma devo arrendermi alla realtà dei fatti. Mollo la compagnia e mi fermo a casa dei miei.
Che cosa devo capire? Recito Daimoku, ho paura e piango. Apro una pagina del Gosho a caso e leggo: «Il riso sembra una cosa da poco, eppure è ciò che alimenta la vita umana. È come l'olio che alimenta una lampada. Il Sutra del Loto è una lampada e il suo devoto l'olio che l'alimenta». E ancora: «Vi sono demoni che mangiano pelle e carne, ossa e midollo umani, demoni che si nutrono della vita e demoni che si nutrono della voce» (Re Rinda, RSND, 1, 874; cfr. SND, 9, 85).
Un istante, profondo e potente. Nichiren mi stava dicendo di alimentare il mio corpo. Solo così avrei potuto sperare di alimentare lo spirito. Avevo permesso che il mostro che ora stava affiorando l'avesse fatta da padrone per troppo tempo. Anni di psicoterapie di gruppo e di analisi mi avevano aiutato a tenerlo a bada, non mi aveva ucciso come minacciava di fare nella fase attiva, ma quel demone che si nutriva della mia vita era ancora lì. Il mio corpo non aveva ricevuto il sostentamento necessario e ormai era così indebolito che una corsetta nel parco mi provocava una lesione al femore!
Ecco dove mi aveva portata il Gohonzon, la mia Buddità. Dovevo scegliere se sconfiggere l'anoressia o rinunciare a essere una persona di valore per kosen-rufu. Molte volte avevo fatto leva sulla mia buona volontà. Stavolta era diverso. Mi sentivo come quel grandioso leone all'attacco. Presi da parte mia madre e le dissi: «Da questo momento l'anoressia esce completamente dalla mia vita. Basta. Finito». Lei, incredula e piena di speranza quanto me, mi porta qualcosa: due enormi fette di pane bagnate nell'acqua dei fagioli con olio d'oliva! Le mie lacrime e le sue. Un momento che ricorderò per sempre.
È trascorso più di un anno da allora. Mangiare mi rende felice. Vedere sul mio viso e sul mio corpo una somiglianza con le splendide fattezze di mia madre è qualcosa per cui essere grata ogni giorno. A lei dono il valore della mia salute: il mio modo per rimediare alla sofferenza procuratale in passato. Ancora mi sorprende il fatto che di quel male, nel mio cervello, non sia rimasta alcuna traccia. Il mostro si è arreso. Con me ha finito.
La mia gamba: sostenuta dal Daimoku, dagli impagabili compagni di fede di Roma e del beneventano, sono finita nelle mani di un valido e onesto specialista. Abbiamo lasciato fare a madre natura: un lungo periodo di immobilità, alimentazione corretta, una magnetoterapia, integratori di calcio. La mia ultima TAC afferma che la frattura è praticamente guarita. Sapere di esserci riuscita attingendo a me stessa senza necessariamente ricorrere all'abilità di un chirurgo - cosa che all'inizio sembrava l'unica soluzione - mi ha permesso di sperimentare che il potere mistico porta la luce dove non c'è, anche dove, sopraffatta dal mio stesso limite, disperavo di poterla accendere. Oggi recito Daimoku per sostenere principalmente questa volontà: "abbandonare il transitorio, rivelare l'originale". Io so dove voglio andare, il Gohonzon sa dov'è giusto che io vada. La mia vittoria è quella del mio maestro: Daisaku Ikeda.
(M. G. P.)

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Oggi mangiare mi rende felice

Emersero dalla terra danzando per affrontare le quattro sofferenze

Per affrontare le quattro sofferenze

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