Quando qualcuno di noi ha proposto di realizzare uno speciale sul lavoro è emersa subito la difficoltà dell'impresa. Da un lato il confrontarsi con un problema drammatico che provoca grande sofferenza a tante persone; dall'altro il rischio - sempre presente - di ridurre l'approccio buddista a qualcosa di teorico e lontano dalla realtà.
Abbiamo anche avuto dubbi sulle nostre capacità di "maneggiare" questo tema, ma poi è stato chiaro che come redazione buddista avremmo dovuto farci i conti, senza scappare.
Abbiamo recitato Daimoku, studiato, discusso insieme. E il percorso che ci ha condotto fin qui è stato stimolante e fecondo.
Abbiamo scoperto quanti, non solo buddisti, considerano questo momento di crisi come l'opportunità per definire una nuova visione del mondo che metta al centro gli esseri umani e la loro interconnessione, che ristabilisca il senso del lavoro come "opera di sé" e non solo come fatica o merce di scambio. Un'occasione per fare silenzio e percepire dentro di noi qualcosa di prezioso che non avevamo mai sentito prima e per tirare fuori dalla nostra vita potenzialità nuove e inesplorate.
Senza farci schiacciare, ma salendo in piedi sull'enorme macigno delle difficoltà attuali per guardare ancora più lontano.

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Il lavoro

È il momento di una svolta epocale: lo dice il Buddismo, ma non è il solo. Occorrono altri strumenti per analizzare le cose che accadono e sistemi di pensiero diversi per ridefinire le priorità, sostituendo all'egoismo la compassione e così valorizzare le capacità di tutti

È il momento di una svolta epocale: occorrono nuovi strumenti per analizzare le cose e sistemi di pensiero diversi per ridefinire le priorità

di Maria Lucia De Luca

Voglio osare.
Voglio avere il coraggio di provare ad aprire la porta della gravissima situazione attuale (la mancanza di lavoro, l'impasse economica e politica, l'incertezza del futuro...) infilando nella serratura la chiave buddista di "la crisi è un'occasione" ed esplorando nuovi scenari.
Nel documentarmi per preparare questo speciale ho verificato che non solo il Buddismo ma in generale le persone di buon senso e anche le menti più avanzate del nostro pianeta ritengono che quello presente sia il momento di una svolta epocale e che non sia più possibile adottare i soliti schemi. Quindi non è fuori dal mondo chi la pensa, diciamo così, in modo "buddista" bensì - come purtroppo succede spesso anche a noi che pratichiamo - chi cade nel solito cliché della lamentela, dell'impotenza o della rivendicazione, per quanto la sua voce possa essere amplificata, martellante e in armonia con un vasto coro.
Scrive il Daishonin: «Saggio non è chi pratica il Buddismo prescindendo dalle questioni mondane, ma chi comprende perfettamente i principi che governano il mondo» (Il kalpa della diminuzione, RSND, 1, 995).
Nichiren parla di comprendere i principi che governano il mondo. A tale proposito vorrei riportare alcune idee di Daisaku Ikeda tratte dall'ultima Proposta di pace, analizzandole in parallelo a qualcuna delle molte visioni e proposte che a livello globale mi sembrano vicine alla prospettiva buddista. Ikeda suggerisce l'utilizzo del trattato del Daishonin Adottare l'insegnamento corretto per la pace del paese, scritto nel 1260, come un «sistema di pensiero attraverso il quale inquadrare la situazione contemporanea» (BS, 152, 12) e considera particolarmente rilevanti tre aspetti:
1. la centralità dell'empowerment: «La necessità di credere nelle possibilità illimitate dell'essere umano, [...] la fede nell'asserzione che ogni persona possiede un potenziale infinito e ha la capacità di far emergere la propria unica ed essenziale dignità» (BS, 152, 18);
2. la coscienza della nostra interconnessione: «Per Nichiren l'unica strada percorribile per uscire dal vicolo cieco in cui si trovava la società era che le persone credessero nelle reciproche capacità e lavorassero insieme per farle emergere» (Ibidem);
3. il ruolo dello Stato: «Le massime priorità dello Stato devono essere il benessere e la sicurezza delle persone comuni. [...] Chi è al potere deve essere le mani e i piedi del popolo» (BS, 152, 13).
È bello scoprire che nel mondo tante persone la pensano così.
Rispetto al primo punto, ad esempio, ho letto nel documento finale della Conferenza di Lisbona, nel corso della quale si tracciarono le linee guida per la realizzazione di una cosiddetta "società della conoscenza": «Le persone sono la principale risorsa dell'Europa e su di esse dovrebbero essere imperniate le politiche dell'Unione. Investire nelle persone e sviluppare uno Stato sociale attivo e dinamico sarà essenziale per la posizione dell'Europa nell'economia della conoscenza nonché per garantire che l'affermarsi di questa nuova economia non aggravi i problemi sociali esistenti rappresentati dalla disoccupazione, dall'esclusione sociale e dalla povertà» (Consiglio europeo di Lisbona 23-24 marzo 2000, conclusioni della presidenza, http://www.europarl.europa.eu/summits/lis1_it.htm).
Investire sulle persone, e non in Borsa. Investire in competenze, capacità. In quelle che l'economista indiano Amartya Sen, premio Nobel 1998, definisce "capacitazioni", le qualità individuali che permettono di scegliere e costruirsi la vita che si ritiene di maggior valore. Contrastare la crisi globale vuol dire quindi combattere l'"incapacitazione" e non la semplice scarsità di reddito; quello di cui abbiamo bisogno è la libertà di poter usufruire delle risorse strumentali per autorealizzarci.
La società, lo Stato, dovrebbero quindi avere come maggior preoccupazione quella di far sì che i cittadini siano messi in grado di manifestare le loro qualità uniche, perché questo ritorna a tutti. Le capacità personali sono "patrimonio dell'umanità", un bene comune e non una semplice merce di scambio, un mezzo che serve unicamente per guadagnarsi da vivere o per ottenere una gratificazione individuale.
Nella mia quasi trentennale esperienza lavorativa ho verificato quanto sia facile svalutare la propria attività e utilizzare il proprio patrimonio di capacità solo come qualcosa che si fa per qualcun altro dal cui giudizio si dipende sia materialmente (soldi) che spiritualmente (alta o bassa considerazione di sé in base alle valutazioni altrui). Quanto è facile allora sentirsi inutili, non considerati, mettersi l'uno contro l'altro e cadere nel tranello del rancore e della lamentela.
«Devi essere tu a dominare il tuo lavoro - scriveva anni fa il presidente Ikeda - senza lasciare che sia il lavoro a dominarti. Se manchi di iniziativa, o se il tuo impiego non ti ispira abbastanza, significa che sei schiavo del tuo lavoro. Quando le cose si fanno difficili puoi facilmente perdere di vista il nodo centrale del tuo lavoro. Anche questo significa essere schiavi. Quando sei sufficientemente sicuro di cosa devi fare, conosci le responsabilità che ti devi assumere e hai chiare in mente le cose più importanti, a quel punto puoi essere certo di controllare pienamente il tuo lavoro» (NR, 115, settembre 1991).
Lavorare con gli altri e non per gli altri - come insegna Wangari Maathai, premio Nobel per la pace e fondatrice del movimento della Cintura verde, i cui appartenenti grazie alla sua ispirazione hanno piantato quaranta milioni di alberi in poco più di trent'anni (cfr. BS, 152, 23) - permette di superare il senso di impotenza, lo spirito rivendicativo e di conflitto, per sentirsi parte indispensabile di un progetto e di una comunità, che sia un luogo di lavoro, un quartiere, una città, uno Stato, il mondo intero.
Sviluppare la coscienza della nostra interconnessione - il secondo punto evidenziato da Ikeda - ci fa rompere il guscio dell'individualismo e della competitività sfrenata, consapevoli che la cooperazione sociale rende possibile per tutti una vita migliore di quella che chiunque potrebbe avere se dovesse vivere unicamente in base ai propri sforzi. Penso alla produzione comune di ricchezza attraverso lo scambio e il sostegno reciproco, all'economia delle famiglie e delle comunità. Sia retribuita che gratuita, che comprende tutto ciò che crea valore, ricchezza, felicità.
Sono queste ad esempio le conclusioni del cosiddetto Rapporto Stiglitz (Rapporto della Commissione Sarkozy sulla misura della performance dell'economia e del progresso sociale, stilato dai Nobel Joseph Stiglitz e Amartya Sen e dall'economista Jean-Paul Fitoussi nel 2008-2010) nel quale si associa il benessere non al volume della produzione dei beni o esclusivamente al lavoro retribuito, ma a molti altri fattori definiti nonmarket, come la capacitazione, la salute, la qualita delle relazioni sociali e dell'ambiente.
Una comunità saldamente interrelata e cooperativa - nella quale ogni componente ha una forte coscienza di sé e della propria unica funzione - riesce inoltre a rispondere a situazioni di crisi in modo "resiliente" (cfr. pp. 16-17), riorganizzandosi cioè per trovare nuovi e migliori equilibri utilizzando lo specifico contributo di tutti. Un noto Rapporto della Commissione sulla sicurezza umana dichiara che la domanda principale di ogni iniziativa per la sicurezza umana dovrebbe essere non cosa si può fare ma quanto questa attività si basa sull'impegno e le capacità delle persone direttamente interessate (cfr. BS, 152, 18).
Questo porta all'idea di uno Stato sociale non assistenziale ma di supporto e promozione della capacitazione individuale. Uno Stato che sia "madre" nel senso di "madre terra", che nutre e fa crescere chi la abita. Non è un caso che la radice della parola "felicità" viene dal prefisso indoeuropeo fe, da cui deriva fecundus, femina (in quanto generante), tanto che i latini parlavano di terra felix quando la stagione era stata fertile (cfr. Si può essere felici da soli?, Intervista a Salvatore Natoli, http://dipeco.economia.unimib.it/Persone/Bruni/pdf%5Cintervistanatoli.pdf).
Una madre desidera che i propri figli siano felici e facciano emergere il meglio di sé; maschi o femmine, possiamo sentirci "madri" in ogni ambito, anche alla testa di un'azienda o nel coordinare un gruppo di lavoro: posso testimoniare in prima persona che i risultati sono al di là di ogni previsione e questa è la cosa più appagante. Scrive il presidente Ikeda: «Tutti noi siamo i beneficiari dei grandi doni spirituali dell'amore e della compassione materna. La compassione di una madre è direttamente legata alla preoccupazione e alla gentilezza amorevole del Budda nei confronti di tutti gli esseri viventi. Sperimentare l'amore e la compassione di una madre equivale a sperimentare il cuore del Budda» (BS, 147, 42).
Se cambia il cuore delle persone cambiano le loro azioni. Si tratta in definitiva di passare - sia a livello individuale che dell'intera società - dalle logiche dei mondi di Avidità (letteralmente degli "spiriti affamati": «una dolorosa brama di qualcosa che non si può ottenere [...] che brucia e divora, consumando il corpo e la mente»), Animalità (la legge della giungla: «È nella natura delle bestie minacciare il debole e temere il forte») e Collera (l'egoismo e la sopraffazione, «l'irresistibile impulso a prevalere su chiunque altro»), stili di vita che "avvelenano" gli esseri umani e li separano gli uni dagli altri, alla coscienza dell'interrelazione caratteristica del mondo di Bodhisattva. «Il sé è nello stato di Bodhisattva quando tutte le sue migliori qualità - intelligenza, saggezza, amore, determinazione, coraggio - si fondono assieme all'energia della compassione per il desiderio di far bene agli altri. L'altruismo è il mezzo più efficace per la realizzazione e il perfezionamento di se stessi. Fare del bene agli altri è il modo migliore per perfezionare il proprio carattere e per trovare una maggiore felicità per se stessi» (Daisaku Ikeda, La vita mistero prezioso, pp. 108 e 139).
La parola "responsabilità" indica l'abilità o capacità di rispondere. Siamo a un bivio: possiamo trasformare quella che le scritture buddiste - e anche la visione attuale - descrivono come "l'epoca delle dispute e dei conflitti" nel tempo della fioritura della felicità e dell'armonia, oppure lasciar andare tutto in rovina. Nel Gosho Sulla profezia del Budda Nichiren Daishonin dichiara che «i grandi presagi», le catastrofi e gli strani eventi che accadono sono i segni che le dottrine della Legge suprema stanno sorgendo o andando in declino. Fa tale affermazione perché è questo il tempo dell'entrata in scena dei Bodhisattva della Terra che lottano per diffondere l'ideale della dignità della vita e del rispetto di ogni essere umano: tutto dipende dal loro senso di responsabilità, dalla loro decisione di indirizzare il futuro in un senso o in un altro.
Più il periodo è difficile, più dobbiamo tornare alla nostra visione del mondo e lavorare per realizzarla. Tante brave persone nel mondo se lo aspettano e non vedono l'ora di collaborare.

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Una nuova visione del mondo

Le parole sono importanti. Alla radice del termine lavoro c'è l'idea di un'attività che può essere penosa o creativa, e si è precari quando si ottiene qualcosa per concessione. Ma noi siamo soprattutto Myoho-renge-kyo, il nome della nostra potenza e illimitata possibilità

Le parole sono importanti: "lavoro" può essere un'attività penosa o creativa, ma noi siamo soprattutto Myoho-renge-kyo, il nome della illimitata possibilità

di Gianna Mazzini

Che momentaccio, che difficoltà, proprio ora, qui. Far corrispondere alla fatica il valore.
È davvero un momento difficile per parlare di lavoro, ma "straordinariamente" adatto. Perché non c'è persona che io conosca che non stia attraversando un momento di ridefinizione del proprio lavoro: o perché il senso di quel che faceva sta cambiando o perché il lavoro non c'è più.
Vi propongo un giro.
Provare a entrare nel tema passando dalla parola, entrando nell'origine stessa della parola "lavoro".
C'entrano le parole con la vita? Il modo in cui io definisco qualcosa può, in qualche modo, orientare e influenzare l'idea che di quella cosa mi faccio?
Prendiamo la parola "precarietà".
"Precario" è "qualcosa che non dura". È una parola dolorosa, che produce in chi la vive una percezione di sé labile e impotente. "Precarietà" non è solo una parola, è uno stato d'animo, invasivo e avvolgente. Chi si sente precario, precaria, sente un'incertezza che va oltre il fatto di non avere un lavoro a tempo indeterminato. Guardiamo l'origine.
"Precario" viene da prex, prece che significa "preghiera" e ha due significati:
1. ottenuto per preghiera, cioè che si esercita con permesso altrui;
2. che non dura sempre ma quanto vuole il concedente.
Terribile no? Ecco perché è una parola così dolorosa. Anche se non lo so, quando mi sento precaria è questo che sento: dipendere totalmente da una concessione esterna e per un tempo che qualcun altro decide per te. Ecco spiegata quella sensazione.
Andare alla radice di una parola non è mai esercizio fine a se stesso perché le parole trattengono il senso, anche quando vengono usate con un altro significato.
Anche quando noi non ne siamo consapevoli.
Ora possiamo iniziare il giro dentro la parola "lavoro".
Troviamo subito due filoni: il primo viene dal latino labor e si rifà all'idea di lavoro come attività dura e penosa (da qui il francese travail, lo spagnolo trabajo, il portoghese trabalho), parole che derivano tutte da uno strumento di tortura, il tripalium (struttura fatta di tre pali incrociati usata per immobilizzare il condannato, n.d.r.).
Il secondo invece si rifà alle lingue anglosassoni e privilegia l'idea di energia, forza fisica, frutti del lavoro (da cui il tedesco werk e l'inglese work). In questo secondo filone prevale l'idea di lavoro come attività produttiva, creazione di opere e di ricchezza. Non c'è dubbio che la nostra cultura abbia privilegiato il primo dei due: lavoro come attività dura e penosa. Con quel conseguente senso di espiazione, di lavoro inteso come lo svolgimento di un compito staccato dalla mia persona, che mi riguarda solo se è il lavoro che ho sempre sognato, altrimenti no, è solo un modo per guadagnare da vivere. Allora via appena timbrato il cartellino e tutta quella somma di «perché non vedono il mio valore?», «cosa ci sto a fare qui?» e simili che ciascuno può avere incontrato almeno una volta facendo il proprio mestiere.
Va bene, il lavoro è costruzione di sé quando è quello che ho desiderato fin da bambina, quando riesco a viverci bene, quando mi arricchisce e nutre e fa crescere.
Ma se non è così?
Quando il lavoro è davvero pesante, quando non è il lavoro sognato, quando non è un bel lavoro e quel che facciamo sembra non avere nessun senso?
E soprattutto: quando l'abbiamo perso e il lavoro non c'è più, come si fa?
Ecco, vorrei parlare di questo.

«Ad Au­schwitz - è Primo Levi che scrive - ho notato spesso un fenomeno cu­rioso: il bisogno del "lavoro ben fatto" è tal­mente radicato da spingere a far bene anche il lavoro imposto, schiavistico. Il muratore i­taliano che mi ha salvato la vita, portandomi cibo di nascosto per sei mesi, detestava i na­zisti, il loro cibo, la loro lingua, la loro guer­ra; ma quando lo mettevano a tirar su muri, li faceva dritti e solidi, non per obbedienza ma per dignità professionale» (Conversazioni e interviste, a.c. di M. Belpoliti, Einaudi, Torino, 1997).
Questo passo, terribile e bellissimo, dice una cosa vera.
Dice che il lavoro è un'espressione di sé, è opera di sé. O, per dirla con l'economista Luigino Bruni, «che il lavoro è sempre attività spirituale, perché pri­ma e dietro una qualsiasi attività lavorativa, che sia una lezione universitaria o la pulizia di un bagno, c'è un atto intenzionale di libertà, che è ciò che fa la differenza tra un lavoro ben fatto e un lavoro fatto male. Ed è quindi atti­vità umana altissima in ogni contesto nel quale si compie» (Il lavoro e le lenti sbagliate, http://edc-online.org).
Attività umana altissima.
Come amare, pregare, respirare.
Nel sesto volume del Sutra del Loto si legge: «Nessuna cosa che riguardi la vita o il lavoro contrasta in alcun modo con la vera realtà» (citato in L'offerta del riso, RSND, 1, 998).
Vale a dire che la "vera realtà" attraversa, bagna, pervade le stanze nelle quali lavoriamo, le relazioni che incontriamo. Sta dentro le cose che facciamo, i pensieri, le parole e i gesti.
Il Buddismo lo dice così: anche se nessuno mi vede, ogni gesto, ogni attenzione e cura che metto in quello che sto facendo esiste, resta, si registra, si incide come causa che determinerà un effetto, anzi l'ha già determinato.
Ogni gesto è un mattone del lavoro più importante di tutta la vita: la costruzione di sé.
Come posso pensare di ricavare da quel che faccio l'opera di me?
E soprattutto, mentre faccio quest'opera di me riesco a mangiarci, a pagare l'affitto, a gioire di qualche orizzonte più largo, che so un viaggio?
Scrive il presidente Ikeda: «Ho lavorato per tutta la vita. Anche quand'ero un ragazzino, lavoravo veramente duro. Mio padre era debilitato dai reumatismi e i miei quattro fratelli maggiori furono arruolati nell'esercito uno dopo l'altro. Ero il più grande dei figli rimasti in casa e per questo mi alzavo prima dell'alba e aiutavo la mia famiglia nella coltivazione di alghe. Finito quel lavoro, cominciavo con il giro dei giornali. Una volta tornato a casa da scuola, andavo a consegnare il giornale della sera. Il verbo giapponese che significa "lavorare" (hataraku) etimologicamente indica "dare sollievo" (raku) alle persone che ti circondano (hata). Potevo percepire la verità di queste parole già da molto giovane.
Parte del mio lavoro era inoltre consegnare al grossista le alghe marine raccolte dalla mia famiglia. Mi ricordo che gli dicevo con orgoglio: "Le alghe coltivate dalla mia famiglia sono le migliori" e lui rispondeva: "Lo sono di sicuro"» (BS, 141, 50).
Ogni volta che leggo le parole del mio maestro sento uno spostamento del cuore.
E un allargamento di prospettiva anche. Tutte le costruzioni, tutti i pensieri, anche belli, fatti fino a quel momento s'infragiliscono e lasciano spazio a un punto di vista semplicemente cristallino. Lavorare è dare sollievo a chi ti circonda. Nell'idea stessa del lavoro c'è non solo la possibilità di una creazione di sé ma di creazione di mondo.
Spunta evidente, come un improvviso dietro l'angolo, l'ingratitudine.
Che non vuol dire non vedere le cose che mi accadono o darle troppo per scontate, vuol dire proprio dimenticarsi che essere buddisti, buddiste obbliga a un cambiamento del punto di vista sulle cose. Questo per me non è un momento facile, faccio un lavoro che ha a che fare con la cultura e in tempi di crisi la cultura si taglia, zac, serve altro, cose che si toccano. È un momento in cui sembra non muoversi nulla, pochi progetti, poche certezze.
Potrei attaccarmi già a questo per manifestare ingratitudine nei confronti della vita che così poco tiene in conto ciò che per me conta di più.
L'ingratitudine è la base da smantellare per vincere. Non è un dettaglio, è il centro.
Occasioni per manifestarla, l'ingratitudine, si nascondono ovunque: le difficoltà con chi comanda, con chi ci lavora accanto, una retribuzione scarsa, insomma tutto ciò che può produrre uno svilimento di sé. La crisi dice che non c'è lavoro, che «se tu rifiuti questo ne trovo altri cinquanta che lo fanno, magari anche per meno». «Tu non conti, tu non fai la differenza».
La filosofa Simone Weil, in un suo pezzo commovente scritto molti anni fa, lo spiega bene quando dice che potenti e sottoposti, scienziati e quadri, tecnici e impiegate, bagnini e commesse, tutti, tutte, egualmente soggiacciamo alla più grande delle oppressioni: l'insignificanza della nostra unicità, la sensazione di non poter incidere, essere dimenticabili, alternabili, sostituibili. Pezzi di ricambio usa e getta.
E questo è il momento storico di massima espressione di questo modo di intendere la vita. Massima espressione ma anche massima crisi.
Il mondo intero sta cambiando, non solo io.
Siamo a un passaggio epocale. A un punto di non ritorno in cui pensare di tamponare anziché cavalcare il cambiamento non è una scelta vincente. Nei periodi storicamente più tranquilli ognuno, ognuna di noi cambia a un ritmo e in momenti differenti. Poi ciclicamente accade, qua e là nel tempo, che si addensino curve molto più grandi: cambiano gli equilibri, cambiano i problemi, cambia il mondo, si cambia tutti insieme.
E questo è uno di quei momenti.
Usare massimamente la crisi per cambiare quello che di me non ho ancora cambiato, pregare come non ho mai fatto, non per farcela, per sfangarla, ma per vincere.
La realtà non è un macigno inamovibile, è la vita che cambia in ogni istante, e anche ora sta accadendo, la realtà, proprio ora mentre scrivo, sta cambiando.
Che fare?
Pregare e fare qualsiasi cosa al meglio come quel muro di cui parla Levi.
Perché «nessuna cosa che riguardi la vita o il lavoro contrasta in alcun modo con la vera realtà». Il lavoro è un'atti­vità umana altissima in ogni contesto nel quale si compie. Anche nel più oscuro e avvilente dei momenti c'è la possibilità di incidere e cambiare, ridisegnarne i tratti e abbellire.
Vi ricordate il potere delle parole?
Che se mi sento precaria, sono tutto quello che quella parola significa, cioè "dipendente da un potere altrui per un tempo che quell'altrui decide". Che se mi sento povera sono incapace di comprare le cose e persino di desiderarle. Ma prima di essere precario e precaria, povero o povera, io sono soprattutto Myoho-renge-kyo. Dunque perfettamente dotato, dotata. Immensamente potente, immensamente capace di cambiare e di far felice me e gli altri. Profondamente consapevole che le difficoltà che incontro sono la mia missione.
Lo svilimento di sé sembra sempre venire da fuori, eppure non è così: la sfiducia nel proprio valore parte sempre da dentro.
Riprendo a desiderare. Io sono Myoho-renge-kyo. Noi siamo Myoho-renge-kyo. E Myoho-renge-kyo è il nome della nostra bellezza.
Si tratta di riappropriarsi della propria umanità: e questo si fa pregando.
Se l'ingratitudine spunta improvvisa e automatica, il valore di me, invece, lo devo andare a cercare. È un'azione pervicace, silenziosa, testarda, da ripetere ogni giorno. L'ingratitudine sta nell'ottava coscienza, è la somma di ripetute reazioni a quello che non capisco. La Buddità sta nella nona, più giù, più profonda, più felice, la stessa per tutti.
Lì va cercata quella sensazione di potenza e illimitate possibilità capaci di aprire le porte chiuse, gli spiragli dove non passa più luce e inventare strade dove non ce ne sono.
Allora quello che faccio io quando lavoro sarà hataraku: "portare sollievo a chi mi circonda" e anche ricevere in cambio un valore.
Perché il mondo cambi (e perché io vinca) si passa di qui: dalla fede.
Pregare e fare qualsiasi cosa al meglio, magnifico programma.
I gesti da fare: i migliori possibili qui dove sono.

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Il nome della nostra bellezza

Se riusciamo a entrare in relazione con la vita usando la stessa capacità di ascolto che abbiamo quando cerchiamo la nostra Buddità davanti al Gohonzon, possiamo scoprire nuovi e preziosi modi di guardare noi stessi qui e ora, anche il fatto di ritrovarsi "disoccupati"

Entrare in relazione con la vita usando la stessa capacità di ascolto che abbiamo davanti al Gohonzon, per scoprire nuovi e preziosi modi di guardare noi stessi

di Matteo Pisani

Per molti di noi la perdita del posto di lavoro, soprattutto se avvenuta improvvisamente, costituisce un dramma vero e proprio. Quello che viene meno non ha a che vedere solamente con la perdita della capacità economica ma con un insieme di meccanismi e situazioni da cui l'essere umano prende nutrimento.
Stuart Rees (direttore della Sydney Peace Foundation all'Università di Sydney, Australia) scrive: «Alle persone disoccupate viene negato quel profondo senso di autostima che deriva dal lavoro, nel senso di guadagnarsi da vivere, di avere la soddisfazione di realizzare qualcosa e di dare un contributo alla società» (citato in BS, 152, 10).
Ogni aspetto della nostra vita, da quello più profondo fino agli aspetti della vita quotidiana, entra in relazione con il lavoro. Il corso delle nostre giornate rallenta, cambia. I colleghi, i rapporti con i superiori, le amicizie, la colazione al bar, la sveglia, l'autobus, la macchina, la benzina, i turni in bagno prima di uscire di casa, i desideri, i progetti, i sogni, le vacanze. Non ci sono più.
Tante cose se ne vanno e una invece arriva, la preoccupazione di come mantenersi, e nel caso di una famiglia, di come mantenere i propri cari. Preoccupazione che non riesco nemmeno a immaginare dato che non ne ho una mia.
Come fare per andare avanti? Come fare per sentirsi unico, prezioso e insostituibile? Nel silenzio, che scopro, dopo anni di lavoro, essere piena una giornata, forse abbiamo una possibilità.
È proprio la mia condizione silenziosa e di riflessione attenta, qualcosa che il nuovo dizionario potrebbe definire con serendipità descrivendo il "rimanere attenti e acuti nel cogliere la realtà", mi suggerisce una nuova compassione, che in questo particolare momento passa per l'attenzione. Un'attenzione capace di farti scoprire una cosa non cercata e imprevista mentre se ne sta cercando un'altra. E il silenzio mi suggerisce una domanda: se non abbiamo ciò che è "naturale" avere, in che modo questo può aiutarci?
Perché questa è l'unica certezza, non mia, ma che m'insegna il Buddismo. Qualcosa di prezioso è agganciato alla situazione presente, alla realtà. Qualcosa che non vedo ma che potrei provare a "prendere" se solo riuscissi a relazionarmi con la vita come ho imparato a fare di fronte al Gohonzon, «tramite i due caratteri che significano fede».

Disoccupare

Nel dizionario, tra gli altri significati si legge: «Non occupare più, chi è senza lavoro».
Quando ho letto questa definizione mi sono accorto che potevo incorrere nel pericolo di considerare il mio stato attuale in modo passivo, solamente, semplicemente, lontano dalla sua potenzialità. Come il silenzio, che esiste nella sua unicità e non come riflesso o risultato di un cambiamento di un processo esistente fino al momento prima, ho cominciato a considerare la mia condizione di disoccupato in maniera attiva, addirittura contributiva al processo di sviluppo della società.
La sicurezza umana, il futuro della nostra società, è un tema che riguarda ognuno di noi indipendentemente dalla condizione o posizione sociale che si trova a vivere. Proviamo a pensare al gioco degli scacchi. Ogni pedina si muove in modo diverso dagli altri; ci sono regine che si muovono in diagonale, orizzontale, verticale, di tante caselle quante i giocatori pensano giuste; cavalli che possono spostarsi a "L", pedoni con i loro piccoli passi. Ma non solo. Ci sono anche caselle nere e caselle bianche, che rimanendo immobili contribuiscono allo svolgimento della partita.
Il secondo significato che trovo sul dizionario mi fa riflettere ancora di più; viene accostato al significato di oziare.
La prima immagine che mi viene in mente è di essere un uomo pigro, inattivo, ma facendo una ricerca su Internet scopro che l'accezione negativa è stata introdotta più avanti mentre nella sua origine il termine ozio, derivato dal latino otium, descriveva anch'esso un'occupazione, principalmente intellettuale di studio e di riflessioni, che era contrapposta a negotium, termine che indicava occuparsi più per necessità che per scelta. Continuando la ricerca ho scoperto che erano considerate, a differenza di oggi, come due diverse occupazioni, non in contrapposizione ma complementari: l'occupazione "oziosa" arricchiva e completava quella del "negozio". Tutte e due quindi importanti non solo per lo svolgimento degli affari della società, ma per l'equilibrio del progresso dinamico di entrambe.
Ho cominciato a capire che nel silenzio, nella riflessione attenta, stavo scoprendo un nuovo modo di considerare la mia condizione. Non solo. Legato alla situazione presente ho trovato un nuovo concetto che lasciava da parte quello di me come "individuo" per fare posto a una visione di me come facente parte di un "disegno" più grande.

Insieme

Nel Gosho Risposta a Tokimitsu (RSND, 1, 823) viene narrata la storia di Aniruddha, figlio del re Dronodana, e degli atti di bontà che fece nelle sue esistenze passate. La storia narra di un cacciatore che in un'epoca di carestia non aveva quasi niente da mangiare. Un giorno, mentre si accingeva a mangiare l'ultima porzione di miglio che coltivava, un santo apparve al suo cospetto chiedendogliela in elemosina. Il cacciatore pur vergognandosi per la sporcizia della ciotola, gli diede il cibo. Dopo aver mangiato il santo restituì la ciotola al cacciatore lasciandovi un unico granello di miglio che dopo varie trasformazioni assunse le sembianze di un uomo fatto completamente d'oro. Da quel momento ogni volta che il cacciatore staccava un dito all'uomo d'oro e lo vendeva, ne appariva uno nuovo al suo posto. Anche se si trattò di una misera quantità di miglio, poiché sostenne la vita di un altro essere umano in un paese ridotto alla fame, egli ricevette una meravigliosa ricompensa.
Per la prima volta, leggendo questo scritto, mi sono visto come quel santo. Mentre lo leggevo ho capito che era il momento di cambiare punto di vista. Nel corso della mia esperienza più volte avevo provato la gioia di offrire, di aiutare. Ma adesso ero io ad avere bisogno d'aiuto, soprattutto da parte della mia famiglia. È stato come accendere la luce e portare allo scoperto la preziosità di una rete familiare che mi sostiene, che esiste. La paura, il giudizio, la separazione sono svaniti in un attimo. Come se esistesse un naturale equilibrio, fondato sulla preghiera per la felicità della mia famiglia, ho scoperto che ognuno di noi, in maniera diversa, stava contribuendo a proteggere il futuro.
Ho capito che per offrire qualcosa c'è anche bisogno di qualcuno che riceva. Dare e ricevere non sono separati, non c'è un meglio o un peggio. Anche quelli, come l'otium e il negotium, sono complementari. Si aiutano e si sostengono a vicenda.
Ho capito che avere bisogno non intacca la mia dignità, chiedere aiuto non mina la mia forza, e che il senso di autonomia esiste nel mio cuore e non viene reso meno se dipendo da altri.

Un altro modo di guardare

Mai come in questo momento risulta complicato, ma essenziale, cercare di rispettare la natura buddica della nostra vita. È una battaglia che penetra le fondamenta dell'esistenza umana per stabilizzare in maniera solida la direzione del nostro cuore.
Questa direzione è descritta nella frase del Sutra del Loto che recitiamo due volte al giorno: isshin yokken butsu fuji shaku shinmyo, tradotto come «desiderano con tutto il cuore vedere il Budda anche a costo della vita». In aprile la responsabile europea delle donne e delle giovani donne della Soka Gakkai Suzanne Pritchard aveva concentrato proprio su questa frase il suo incoraggiamento alle donne italiane, paragonando questo rispetto «alla corrente che scorre incessantemente nelle profondità dell'oceano, senza tenere conto di ciò che accade in superficie». Ciò implica imparare a guardarsi e ad ascoltarsi in modo nuovo, abbandonando quell'"arroganza inversa" che, negando la nostra natura di Budda, contraddice in blocco Shakyamuni, Nichiren Daishonin e i tre presidenti della Soka Gakkai, che lo affermano e lo ribadiscono di continuo.
Prendendo in prestito alcune parole della filosofa Luisa Muraro mi viene da descrivere questa capacità diversa come un'invenzione che ha qualcosa in comune con l'arte di disfare le maglie. Ascoltarsi, a volte, può voler dire disfare alcune nostre idee, ma con il pregio che finito il lavoro del disfare restano i gomitoli del filo a disposizione per nuove opere. Nuove opere che partono da un assunto: siamo degli esseri perfettamente dotati.
E quando parliamo di essere perfettamente dotati dobbiamo ricordarci che questa natura appartiene a ogni essere umano. Ancora Suzanne Pritchard ci ricorda che la nostra società è abituata a rispettare le persone che detengono il potere o uno status sociale mentre nel Buddismo il rispetto è riconoscere e far tesoro dell'umanità della persona e del suo potenziale di Buddità. È un rispetto "nuovo", da imparare, che nasce dalla fede nelle potenzialità degli esseri umani, e che implica una trasformazione nel proprio modo di guardare.
È questo l'assunto di base del pensiero dell'economista Luigino Bruni (già citato nell'articolo di Gianna Mazzini a p. 9), che individua proprio nel modo di guardare la trasformazione da attuare per avere come risultato dei lavoratori attivi, non più opportunisti e, cosa a noi tanto cara, delle persone felici.
«Il disagio del mondo del lavoro è anche il frut­to del dilagare incontrastato di questa anti­cultura del lavoro, che non vedendo il "biso­gno del lavoro ben fatto" come la vocazione più radicale presente nelle persone, tratta i lavo­ratori come moderni animali domabili con ba­stone (sanzione-controllo) e carota (incentivo). E se trasformiamo così i lavoratori, non dobbiamo poi stupirci se le imprese si ritrovano persone pigre, opportuniste e (o perché?) infelici».
C'è un urgente bisogno, conclude Bruni, «di tornare a scommettere sulle straordinarie risorse morali presenti in tutti i lavoratori, dignità e libertà, che non possono essere comprate, ma solo donate dal lavoratore. Risorse morali che bisogna valorizzare».
Non lo trovo tanto distante dalla frase: «Desiderano con tutto il cuore vedere il Budda anche a costo della vita».

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Qualcosa di prezioso è agganciato al mio presente

Come trasformare il veleno in medicina

Come trasformare il veleno in medicina

di Antonella D'Oriano

Rifletto sul concetto di "resilienza". In psicologia, la resilienza consiste nella capacità di far fronte agli urti della vita. Non si tratta semplicemente della capacità, certamente apprezzabile, di superare le difficoltà della vita. Se riusciamo ad attraversare i momenti difficili rimanendo in piedi non implica necessariamente che siamo resilienti. La resilienza è qualcosa di più: è la capacità di andare oltre quell'evento drammatico; è l'abilità di utilizzare proprio quell'evento per tirare fuori dalla propria vita potenzialità nuove e inesplorate. Essere resilienti significa sentire dentro di sé la possibilità di ricostruire dalle macerie una persona nuova, diversa, migliore. Non solo, si tratta di percepire che proprio "grazie" a quello sconvolgimento la nostra vita ha acquistato un senso più profondo, di inestimabile valore. E sì, tutto questo è molto diverso dal semplice sopravvivere a una difficoltà. Alle volte, infatti, vivere un evento traumatico ci chiude alla vita, ci rende più sfiduciati, più appesantiti, più tristi e ci fa trascinare la nostra quotidianità ormai priva di sogni. La resilienza, invece, ci apre agli altri, a noi stessi, alla vita in genere. Essa ci permette di continuare a cogliere le infinite possibilità che la vita ci offre sempre perché, in fondo, solo un atteggiamento di chiusura ci priva delle opportunità che sono sotto i nostri occhi ma verso le quali siamo diventati ciechi.
Grazie alla resilienza riusciamo, quindi, a farci rigenerare dagli "sgambetti" che la vita ci propone divenendo consapevoli del fatto che in ogni situazione la differenza la facciamo noi. In fondo un problema può essere paragonato a un grande masso sul quale inciampare per sprofondare nella terra o sul quale salire in piedi per guardare ancora più lontano. Dipende da noi. La resilienza mi fa pensare al concetto buddista secondo cui è possibile trasformare il veleno in medicina e mi accorgo che Nichiren Daishonin, con questo principio, aveva anticipato quello che innumerevoli ricerche scientifiche hanno poi confermato.
Viviamo in un periodo di forte crisi.
Una crisi presente su più livelli, non solo quello economico. Eppure sembra essere proprio questo aspetto a spaventarci di più perché ci fa sentire il rischio della privazione di bisogni per noi fondamentali. La parola cinese per "crisi" è costituita da due ideogrammi: "pericolo" e "opportunità". A un certo punto della mia pratica buddista e della mia carriera lavorativa ho sentito che desideravo percepire appieno anche il senso dell'opportunità e non solo quello legato al rischio e alla paura. Ho capito che fino a quel momento non ero riuscita a realizzare i miei obiettivi lavorativi e che la mancata realizzazione aveva radicato in me un pensiero del tipo: «Se non ci sono riuscita finora, vuol dire che non ci riuscirò mai. È troppo difficile per me!». Non è stato semplice riconoscere questo tipo di pensiero perché era ben camuffato dalla miriade di azioni che attuavo in quella direzione. Queste azioni però mi portavano via energia e mi facevano sentire, alle volte, molto sconfitta. È stato un attimo, quell'attimo in cui ho scoperto che le mie iniziative si basavano su un sentimento di sfiducia; e su quello l'ambiente non mancava di rispondermi puntualmente. Sarà riduttivo, ma per me è stato un nuovo inizio quando ho scoperto di essere intimamente convinta che nella mia vita il passato si sarebbe perpetuato facendomi accumulare solo fallimenti. Questa consapevolezza mi ha messo di fronte alla sfida di utilizzare quel masso non per inciampare, stavolta, ma per vedere molto lontano. Ho capito che questa crisi globale ci mette di fronte alle nostre più profonde insicurezze perché ci porta a dubitare del nostro vero valore. Rischiamo dunque di intrappolarci nell'idea che se non abbiamo un lavoro, se non siamo capaci di sostenerci da soli, allora vuol dire che non valiamo.
Tutto ciò non fa altro che alimentare la nostra oscurità fondamentale che ci vuole remissivi, deboli e infelici.

La mia principale occupazione lavorativa è nell'ambito dell'infanzia. Negli ultimi anni ho incontrato grandi difficoltà nel mio luogo di lavoro perché sentivo che le mie capacità non venivano valorizzate né su un piano economico né come riconoscimento del ruolo. Desideravo dare di più, mettere a disposizione tutto ciò che - nei miei anni di formazione - avevo imparato, ma mi trovavo sempre in situazioni dove le mie idee non venivano considerate, apprezzate e tanto meno attuate. Inoltre soffrivo molto del fatto che, nonostante mi sforzassi di creare con i colleghi dei legami umani oltre che professionali, vivevo continue situazioni di tensione. Percepivo i rapporti tra noi come basati sulla collera e la colpevolizzazione, e ciò faceva emergere una profonda divisione. Dedicavo tutto il mio tempo libero a promuovere le mie idee altrove, ma con scarsi risultati. Più la situazione al lavoro peggiorava, più mi spendevo fuori per crearmi delle alternative, più fallivo. Nel frattempo mi dedicavo instancabilmente all'attività buddista istituzionale e a quella di protezione come byakuren al kaikan, anche se nella vita quotidiana mi scontravo sempre con le stesse situazioni. A un certo punto ho capito. Ho capito che quando mi dedicavo agli altri nella Soka Gakkai non mi risparmiavo. Quando svolgevo un turno di protezione davo il massimo di me stessa. Quando ero al lavoro, invece, non ci stavo al cento per cento. L'allenamento che avevo la fortuna di fare all'interno dell'organizzazione in realtà non lo stavo utilizzando per migliorare la mia vita. Stavo veramente sprecando un'occasione. Da quel momento in poi ho cercato di non risparmiarmi più. Decisa a offrire la parte migliore di me senza aspettarmi nulla in cambio, ho cominciato a mettere in campo tutte le mie competenze e ad arricchirle ascoltando ciò che di buono i miei colleghi avevano da dire. Ho pregato per la loro felicità e per sentire gratitudine nei confronti dei miei capi grazie ai quali guadagnavo dei soldi. Nel giro di poche settimane sono diventata consulente editoriale per un sito web dove mi occupo di psicologia e ho iniziato a offrire la mia collaborazione nell'unico sportello pubblico di psico-sessuologia presente sul territorio di Roma. Nel mio lavoro, poi, i rapporti con i colleghi sono notevolmente migliorati, giorno dopo giorno. Infine, il mio capo mi ha messo al corrente che a breve sarebbero partiti dei nuovi progetti dove veniva richiesta la mia collaborazione: si tratta, in parte, delle idee che per anni aveva scartato!
Ciò che mi ha aiutato ad andare fino in fondo a questa esperienza è stato sentire il mio valore personale. Tale valore non potranno darmelo né il lavoro né i soldi perché io, come tutti, lo possiedo già per il semplice fatto che esisto, che sono viva e sono un Budda. Questa nuova consapevolezza mi ha permesso di vivere gli ostacoli che incontravo come l'amo che mi aiutava a tirare fuori una qualità che non avevo ancora sviluppato. Da questa esperienza ho imparato che gli ostacoli sono per me degli espedienti, degli amici, dei buoni amici che attraversano la mia vita allo scopo di lasciarmi più forte e più motivata di prima. Credo che questo abbia molto a che fare con la resilienza, perché le mie sofferenze non mi hanno allontanata dagli altri, anzi mi fanno scoprire e riscoprire ogni volta di più la mia umanità. È stato questo un percorso che mi ha portato, come insegna Nichiren Daishonin, a trasformare il veleno in medicina.
Josei Toda disse: «Gli ostacoli servono per metterci alla prova e allenarci, quindi sono come un istruttore di judo che scrolla i propri allievi per fortificarli. Se affrontate ogni ostacolo pronti a fronteggiarlo e decisi a vincere, riuscirete a superare le difficoltà più impegnative» (citato in Il Gosho e la vita quotidiana, Esperia, vol. 2, p. 16).
Se guardo dentro il mio cuore, sento che è proprio così!

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Il potere della resilienza

La pratica aiuta a far luce sul possibile che non è stato ancora considerato tale, consente di vederlo e metterlo in opera

La pratica aiuta a far luce sul possibile che non è stato ancora considerato tale, consente di vederlo e metterlo in opera

di Simona Caleo

Cercare e ottenere un lavoro non è un'azione separata dal resto della nostra vita. È piuttosto un'azione complessa, che richiede il movimento congeniato di pensieri, preghiere, muscoli e occhi. E che, soprattutto nella cupezza della crisi, chiede di chiamare a raccolta le risorse personali: conosciute, appena sospettate, addirittura inattese. Chiede persino di creare, qualcosa che prima non c'era.
La ricerca del lavoro può diventare, attraverso la pratica, una ricerca di valore: è la preghiera che impasta e forma la ricerca, l'azione poi la sostiene, la mette in piedi e la aiuta a diventare un evento concreto.
La strada è quella già battuta, è il gioco imprescindibile del riflesso che non nasconde niente: anche l'ambiente del lavoro restituisce la nostra immagine, con grande precisione. Un senso di inadeguatezza potrebbe portare una sussistenza inadeguata, un piglio troppo avido potrebbe togliere più che dare, un'aspra competizione condurre a una lotta sterile e solitaria. Proprio quando si compie quotidianamente l'esercizio di guardare il più possibile a fondo, dentro e fuori, con la caparbietà della fede, diventa impossibile ridurre questo processo a una transazione.
Cosa vorremmo vedere in quello specchio? Cosa manca all'immagine che ci rimanda? La trasformazione o la creazione non possono che compiersi da questa parte dello specchio, dove la ricerca del lavoro è prima di tutto ricerca di valore: il valore delle risorse, del desiderio, degli strumenti, della visione, del cambiamento.
La pratica aiuta a far luce sul possibile che non è stato ancora considerato tale, consente di vederlo e metterlo in opera. Ma aiuta anche a considerare la pienezza e il potere di quello che abbiamo già. È così, nell'incontro di potere e possibile, che questa ricerca può diventare l'occasione della nostra rivoluzione umana, la chiave per aprire ancora la nostra vita.
In questo ricco quadro il proposito di seguire il proprio sogno non si piega come un fuscello alla necessità di fare qualsiasi cosa, ma si apre alla prospettiva di fare nuove azioni per realizzarlo, di adottare nuovi strumenti, di dare un grande valore al senso che racchiude.
Shijo Kingo, samurai ma anche medico, ha superato la sua crisi professionale più profonda, la perdita del potere e dei beni, deponendo temporaneamente le armi per prendersi cura di qualcuno. Uomo determinato e irascibile, ha seguito il consiglio del Daishonin e ha messo al primo posto i tesori del cuore: in luogo della forza, che avrebbe comunque continuato a usare, ha attinto al suo secondo sapere e risolto la questione con l'arma della compassione, guarendo proprio chi gli aveva tolto tutto. Nel suo specchio è apparso un uomo forte, umile, coraggioso e compassionevole, nella sua vita è tornato quello che mancava.

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Cosa vorrei vedere in quello specchio?

La preoccupazione centrale del pensiero marxiano - la necessità di oggettività - ci riguarda e ci aiuta. A non essere schiavi di noi stessi, del nostro modo di pensare per concetti astratti

La preoccupazione centrale del pensiero marxiano - la necessità di oggettività - ci aiuta a non essere schiavi del nostro modo di pensare per concetti astratti

di Roberto Carvelli

Anche se potrà sembrare demodé citare Karl Marx con tutto il corollario di antimodernità che sembra contenere, oggi che sono state archiviate tutte le implicazioni politiche e storiche di quel percorso, quando si parla di lavoro ha sempre il suo perché. Purtroppo. Quando il filosofo scriveva di alienazione («l'operaio sta in rapporto al prodotto del suo lavoro come a un oggetto estraneo») aveva in mente la fabbrica ottocentesca e non poteva certo sapere a che livelli di "esternalizzazione" poteva arrivare non solo il prodotto del lavoro ma il prodotto del prodotto del lavoro. Non avrebbe certo creduto che il denaro diventasse il trionfo alieno di questa «perdita e schiavitù dell'oggetto, e l'appropriazione come alienazione, come espropriazione» (Manoscritti economico-filosofici del 1844).
Nell'era dei derivati e dei collateral, del lavoro parcellizzato e in affitto, il tema marxiano (e non marxista) finisce per riguardarci anche come buddisti. E quindi come religiosi, senza dimenticare che "l'oppio dei popoli" potrebbe coinvolgere anche noi. «Eliminare la religione in quanto illusoria felicità del popolo vuol dire esigerne la felicità reale. L'esigenza di abbandonare le illusioni sulla sua condizione è l'esigenza di abbandonare una condizione che ha bisogno di illusioni» (Per la critica della filosofia del diritto di Hegel).
A ben riflettere la preoccupazione centrale del pensiero di Marx - la necessità di oggettività - ci riguarda e ci aiuta. A non essere schiavi di noi stessi, del nostro modo di pensare per concetti astratti. Anche la fede. Che serve a essere felici, che prevede la prova concreta, che è azione. Azione di preghiera e azione di azione aiutata dalla preghiera. Che prevede l'aiuto degli altri come aiuto di sé. E inoltre ci invita a dare immanenza alla tanta trascendenza che contiene il nostro pregare.
Ma è anche vero che la strada per l'ottenimento della saggezza, il principio per cui "le illusioni e i desideri sono Illuminazione", passa per la soluzione di questa illusione, il suo disvelamento. Il tema del misticismo e della concretezza sono uno dei fulcri del Buddismo. Preghiamo per realizzare la nostra felicità. Costruiamo uno stato vitale incrollabile e sereno, appagato. Viviamo la realtà come saggezza partendo dal dato dell'illusione con cui fino a un momento prima l'abbiamo percepita. Anche i temi di attualità del lavoro e della mancanza del lavoro ci appartengono in quanto campo dell'esperienza umana. Ci riguardano come manifestazione della Legge della vita. Se «il vero aspetto di tutti i fenomeni può essere compreso e condiviso solo tra Budda» e «questa realtà consiste di: aspetto, natura, [...], e della loro coerenza dall'inizio alla fine» (Il vero aspetto di tutti i fenomeni, RSND, 1, 339), anche il lavoro e la sua mancanza sono inseriti in questo ciclo di coerenza di percezione. E, come spiega Nichiren Daishonin, ciò «significa che gli esseri viventi e i loro ambienti nei dieci mondi, dall'Inferno, il più basso, alla Buddità, il più elevato, sono tutti, senza eccezioni, manifestazioni di Myoho-renge-kyo» (Ibidem).
Anche il lavoro lo è. Non manca ma deve essere trovato. Non c'è ma può essere inventato. Era un altro ma l'ho cambiato. Avevo quaranta anni e mi sono reinventato. Tante case history felici dell'imprenditoria raccontano questa energia che si rinnova. La percezione della realtà come mutamento, come vitalità, è l'ingrediente principale per l'uscita dalla crisi. Azione e, ancora meglio (per un praticante), azione illuminata per non essere noi gli oggetti alienati di questo discorso involuto della crisi come crisi e non come opportunità.

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Alienazione e Buddità

In prima persona

Sono giornalista, e quest'esperienza nasce dal mio obiettivo di trasformare il karma dal punto di vista lavorativo ed economico. Prima di formularlo, pur rendendomi conto di scrivere articoli di valore, non riuscivo a farli arrivare all'attenzione dei più. Non solo, l'effetto era che guadagnavo trecento, quattrocento euro al mese. Quando già pensavo, nel settembre del 2010, di lasciare Roma per tornare in Calabria, una mia compagna di fede rientrò da un viaggio in Giappone con un messaggio di Sensei rivolto ai praticanti in genere, ma soprattutto ai giovani: «Tra voi e i vostri sogni c'è solo la paura di realizzarli, bisogna puntare al massimo senza elemosinare». Ho cominciato a fare Daimoku per "non elemosinare" e piano piano a capire che la sfida vera consisteva nel trovare il mio valore. Qualcosa cominciava a muoversi. A dicembre 2010 sono andata a Trets come byakuren. È stata un'esperienza molto stancante (probabilmente ho fatto una vita troppo comoda!) ma intensa, dove ho determinato la vittoria per tutto il 2011 per me e per i membri presenti. A gennaio mi è stata proposta la responsabilità di capitolo delle giovani donne e mi sono sentita incanalata in questo grande flusso di kosen-rufu, in vista della riunione europea di ottobre 2011. Tutti con un'unica mente in itai doshin con il nostro maestro. L'occasione per mettere degli obiettivi enormi!
A giugno 2011 per un'inchiesta sulle condizioni di vita nei CIE [i centri d'identificazione ed espulsione dove, in mancanza del permesso di soggiorno, vengono detenuti gli immigrati senza alcun rispetto dei diritti umani, in attesa di essere espulsi dal territorio nazionale, n.d.r.], ho avuto l'autorizzazione a entrare in una di queste strutture. La cosa inspiegabile è che dall'aprile precedente una circolare dell'allora Ministro degli Interni Roberto Maroni aveva negato ai giornalisti l'ingresso in questi luoghi "fino a nuova disposizione". Vale a dire che nessun cronista poteva documentare cosa accadeva al loro interno. Nessuno tranne me, che per un disguido sono potuta entrare nel CIE di Palazzo San Gervasio in provincia di Potenza. È accaduto così: dopo aver saputo da un collega della possibilità di far ricorso contro questo provvedimento ingiusto e censorio, avevo mandato richieste nei CIE di tutt'Italia per ottenere il rifiuto scritto per poi impugnarlo davanti a un giudice. Tra i vari dinieghi però ho ricevuto anche l'inaspettato ok dalla Prefettura di Potenza per il CIE temporaneo di Palazzo San Gervasio, una tendopoli che per i cento migranti presenti si è trasformata da campo di accoglienza della Croce Rossa in luogo di reclusione il giorno stesso in cui, il 5 aprile 2011, il governo italiano ha chiuso le frontiere dopo gli sbarchi di Lampedusa. Così nel giorno pattuito ho preso il treno e sono arrivata in questo posto desolato nelle campagne della Basilicata, convinta che alla fine si sarebbero accorti dell'errore e non mi avrebbero fatto entrare. Invece sono entrata e la fortuna (?) ha voluto che i ragazzi reclusi appena mi hanno visto mi hanno consegnato dei video girati in prima persona all'interno del CIE. Quando davanti al computer ho visto il loro materiale, ho capito che dal punto di vista giornalistico si trattava di riprese originali e soprattutto introvabili. Nessun altro avrebbe potuto farle. Mentre dal punto di vista dei diritti umani quei video sono stati fondamentali per raccontare la loro gravissima situazione di "detenzione amministrativa" in una struttura considerata inagibile meno di un anno prima (giorni vuoti tutti uguali in cui non possono far nulla, neanche leggere un libro perché gli potrebbero dare fuoco!). Un racconto che io avrei potuto fare solo a parole poiché mi era stato vietato di fare foto o riprese e che ho poi pubblicato sotto forma d'inchiesta sul sito di un importante quotidiano nazionale.
Nel frattempo avevo anche trovato il modo per portare avanti il ricorso contro il divieto d'ingresso nei CIE da parte dei mass media. Sempre lo stesso collega di prima mi aveva fatto conoscere l'attività di Open Society, una fondazione finanziata dall'industriale americano George Soros a sostegno della libertà d'informazione nel mondo, Italia compresa, considerata a rischio negli ultimi anni. All'inizio non avevo capito bene chi fossero, pensavo si trattasse di un gruppo di avvocati intenzionati a sostenere gratuitamente l'azione legale sottoscritta da me e da un altro giornalista e presentata al TAR del Lazio. Con due di loro ci siamo scritti per e-mail e visti di persona solo al momento di firmare il ricorso. Pensavo che il mio rapporto con Open Society fosse finito lì. 
Per un intreccio di situazioni che mentalmente non avrei mai potuto prevedere, invece, tutti i miei sforzi a partire dall'obiettivo di "non elemosinare" stavano per essere premiati con un contratto giornalistico (part time e a tempo determinato) finanziato proprio dalla fondazione di Soros. Una sorta di chimera per chi fa questo mestiere oggi. In quei mesi infatti Open Society aveva coinvolto l'agenzia di stampa con cui collaboro dal 2009 (pagata 22 euro ad articolo) per redigere una guida alla "comunicazione corretta" rivolta ai giornalisti in cui si parlasse di immigrazione, disabilità, rom, sesso e genere e altro in un'ottica non discriminatoria. E l'agenzia di stampa aveva pensato di affidare il lavoro a me. Tutto questo l'ho saputo due giorni prima del nostro meeting europeo del 22 ottobre. Ero a fare il turno di byakuren al Centro culturale con l'obiettivo di proteggere la riunione al Palaeur quando mi arriva la telefonata del mio direttore dell'agenzia di stampa che mi chiede se sono interessata a un contratto giornalistico di cui avremmo parlato il lunedì seguente. Praticamente dopo il meeting in cui, sempre come byakuren, ho portato la mia vittoria e il mio sorriso. Quando l'agenzia di stampa gli ha fatto il mio nome, Open Society conosceva già il mio lavoro! Al nostro primo incontro la responsabile dei progetti mi ha detto che era contenta che fossi io a scrivere la guida, che mi voleva conoscere perché mi reputava una persona di grande coraggio e che mi seguiva a distanza: aveva letto alcuni miei articoli sui respingimenti in mare verso la Tunisia e sapeva del mio ricorso per i CIE (nessun altro al di fuori della Fondazione avrebbe potuto saperlo!). In quel momento ho capito che i miei sforzi non erano così invisibili come in alcuni momenti ho pensato che fossero. Continuare a credere nel mio e nell'altrui valore è stata la causa di un grande effetto. A parte la realizzazione del mio contratto, che per il futuro dovrò "stabilizzare" con determinazioni ancora più forti e tanto Daimoku, lo scorso maggio, in un tempo record, i giudici del TAR hanno emesso la sentenza in merito al mio ricorso. La cosa bellissima è che hanno riconosciuto la funzione della stampa come cane da guardia della democrazia, il concetto anglosassone del watch dog, secondo cui la presenza dei giornalisti è necessaria per documentare quel che succede nei CIE e più in generale per tutelare i diritti umani di ogni persona. (R. C.)

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Che vittoria da quando ho smesso di "elemosinare"

In prima persona

In prima persona

In questo momento di crisi economica e non solo dovete fare la differenza, dovete vincere. Sono le parole del presidente Ikeda che in queste ultime due settimane mi risuonavano in mente.
Lavoro come agente immobiliare dal 2003 e, proprio mentre cercavo di aprire una mia agenzia, mi viene diagnosticato un tumore, che ho combattuto e vinto. Così, nel 2006 riprendo a lavorare come free lance.
Il mio lavoro e l'attività buddista in questi anni sono andati avanti parallelamente. Gli sforzi per kosen-rufu davano risposte nel lavoro e nella vita, e quando rallentavo il mio impegno per gli altri anche le mie entrate economiche diminuivano. Ho deciso che la mia pratica e il mio zaimu dovevano essere costanti e non dovevo farmi prendere dal demone della pigrizia o da quello del mal di mare (abito a Ischia e per incontrare i membri della mia regione devo prendere l'aliscafo o il traghetto).
Così alla fine dello scorso luglio ho realizzato una grande vittoria lavorativa. Infatti, visto che ormai da tre anni le vendite degli immobili sono ferme, ho pensato di concentrare il mio lavoro sugli affitti, una cosa che il mio collega d'agenzia aveva sempre snobbato. Ho avuto ragione: a Ischia non si può più costruire a causa del passato abusivismo e le richieste di affitto sono aumentate di settimana in settimana, e perciò ho potuto vedere i frutti di tanti sforzi.
E finalmente, dopo anni che non lo facevo, mi sono concessa due settimane di ferie con la mia famiglia. Un bellissima e meritata vacanza.
Ma al rientro, il 20 agosto, mi viene proposto di continuare la mia attività in nero... e mi prende il panico. Sapevo che rifiutare questa offerta significava buttare all'aria tutto il lavoro e gli sforzi che avevo fatto fino a quel momento. Ma come potevo accettare di vivere nell'illegalità dopo che avevo deciso di combatterla in tutte le sue forme, e proprio nella mia regione? Farlo non era da me né come cittadina né come discepola del presidente Ikeda.
Decido di partire da una forte e sincera preghiera, faccio mio il Gosho La Strategia del Sutra del Loto e approfondisco la parte dove Nichiren dice a Shijo Kingo: «Ho letto con grande attenzione la lettera nella quale mi descrivi il tuo recente scontro con potenti avversari. Così, infine, ti hanno attaccato! È stata una gioia per me sapere che la tua consueta prudenza e il tuo coraggio, come la tua salda fede nel Sutra del Loto, ti hanno permesso di uscirne illeso» (RSND, 1, 888). E il presidente Ikeda ci spiega le tre ragioni per cui Shijo Kingo era uscito vittorioso dallo scontro con i nemici (cfr. BS, 131, 5).
La prima è la "prudenza", che consiste nello stare in guardia, nel prendere le dovute precauzioni, nel prestare attenzione a tutto ciò che accade intorno e nel mantenere sempre quest'atteggiamento vigile.
La seconda ragione è il "coraggio" di affrontare con calma qualsiasi situazione di crisi, grazie anche alla saggezza che scaturisce proprio dal coraggio.
La terza è una "salda fede nel Sutra del Loto", cioè il fermo proposito di mantenere la fede nella Legge mistica qualunque cosa accada, poiché la fede è la base di tutto e in definitiva anche la prudenza e il coraggio derivano dalla fede.
Aumento il Daimoku e riprendo l'attività con più cura di prima. L'occasione per approfondire la mia fede mi arriva dal sostenere due persone cui avevo parlato della pratica, un uomo e una giovane donna che poi ha deciso di ricevere il Gohonzon a settembre. E riprendo anche a viaggiare in mare per andare a Napoli a incoraggiare due compagne di fede: la prima sta sostenendo il marito con un tumore e l'altra, ammalata lei stessa, sta affrontando la radioterapia. Che grande occasione: grazie al fatto di avere superato la mia malattia ora posso incoraggiare altre persone. Ma il sostegno è sempre reciproco e così, sparito il panico, decido di andare dal commercialista e spiegargli la situazione. Mi consiglia di prendere in mano la mia posizione lavorativa e di aprire la partita IVA, di fare l'assicurazione professionale e di definire la sede legale.
Sapevo di dover rafforzare i tre punti del Gosho e, finalmente, davanti al Gohonzon decido che avrei vinto e che non avrei deluso il mio maestro.
Lotto con tutta me stessa per sconfiggere il demone della malattia, l'ostacolo che mi si presenta ogni volta che ho un obiettivo. E la dissenteria, che mi fa perdere cinque chili in dieci giorni, come è arrivata così se ne va. Il 6 settembre il commercialista mi consegna la partita IVA e pago l'assicurazione professionale senza la quale non potrei lavorare. Manca la sede legale, ma i due commercialisti si consultano e mi chiedono se mi va di avere una camera nell'appartamento che ospita il loro studio professionale.
Per una cifra irrisoria ho anche la sede.
So bene che aver raggiunto l'obiettivo di un'agenzia tutta mia è per me una ripartenza. Ma ora so ancora più di prima che la mia vittoria dipende da quanto cuore metto nel dedicarmi agli altri e nel migliorare la mia vita.
Ringrazio il presidente Ikeda che col suo esempio mi ha aiutato a combattere e vincere contro i soprusi e l'ingiustizia. «Saggio non è chi pratica il Buddismo prescindendo dalle questioni mondane, ma chi comprende perfettamente i principi che governano il mondo» scrive Nichiren Daishonin ne Il kalpa della diminuzione. Il Daimoku è la spada che userò. (C. B.)

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Fedele ai miei princìpi, riparto alla grande

In prima persona

In prima persona

Voglio provare a dire cosa è cambiato dentro di me in questi anni e come sto affrontando il tema del lavoro/denaro/valore con la pratica buddista, facendo Daimoku, sviluppando ogni giorno il rapporto con il mio maestro Daisaku Ikeda e sostenendo gli altri.
Ho cinquantotto anni e pratico dal 2002. Poco più di due anni fa la mia vita è cambiata: sono rimasta improvvisamente senza soldi passando da essere editrice a disoccupata, dall'avere una vita agiata a non sapere come fare la spesa. La prima cosa che ho dovuto affrontare e trasformare è stato un senso di colpa enorme soprattutto nei confronti di me stessa: aver subito una truffa mi faceva sentire colpevole di non essermi curata fino in fondo e in prima persona dei miei soldi e quindi della mia vita. E ci sono riuscita solo quando ho capito profondamente che lamentarmi di quanto ero stata sciocca non sarebbe stato utile, ma anzi avrebbe continuato ad aggravare la poca stima che avevo di me stessa. È stato importante quindi indirizzare la mia pratica nel credere nel mio valore e nel sentirmi Nam-myoho-renge-kyo esattamente così come sono e non pensare di dover diventare una persona diversa. Il presidente Ikeda ci incoraggia proprio così e ci dice che possiamo ripartire proprio da lì dove siamo arrivati, e quando ho capito questo ho sentito che lui era con me e che ce la potevo fare.
Il secondo ostacolo è che avevo bisogno di chiedere aiuto. Credevo che chiedere aiuto avesse dentro di sé qualcosa che ha a che fare con la resa, l'incapacità e soprattutto avevo paura di non sentirmi più libera. Ma anche qui la trasformazione, praticando, è stata quella di accettare di aver bisogno, di capire che non c'è niente di male a non essere invincibile, a non riuscire a farcela da sola, e che tutto questo mi permetteva finalmente di sperimentare un sentimento fondamentale per il Buddismo che è la gratitudine. Ho scoperto con un certo stupore che tante persone avevano voglia di occuparsi di me, di sostenermi in modi diversi, non solo economici, e che questo rinsaldava il nostro legame.
Ciò che sta accadendo adesso nella nostra società è lo svilupparsi di una solidarietà di antica memoria, e questo permette a ciascuno di dare il suo contributo per quello che è e che possiede sia in termini materiali che di capacità e inventiva. Mi sta capitando spesso di offrire le mie abilità organizzative e la mia creatività, e mi sento molto più apprezzata ora di quanto non mi sentissi quando ricoprivo ruoli lavorativi ma credevo molto meno in me stessa.
La realtà è che ogni giorno che passa mi sento più forte, più capace, e anche se ancora non si è risolta la mia situazione da un punto di vista pratico la mia rivoluzione umana è invece partita alla grande, all'inizio un po' come un diesel, ma ora sento che non posso e non voglio arrestarla, né tantomeno tornare indietro.
In questo percorso è stato necessario abbandonare, o meglio lasciare andare alcune cose, case, abitudini, oggetti. Ogni volta è stato diverso a seconda del mondo in cui mi trovavo, della quantità e qualità di Daimoku che avevo recitato per fare le scelte giuste e per attivare tutta la protezione necessaria. Ma ho compreso che l'importante è sostituire il concetto di perdere, che ci fa sentire il peso della tristezza di non avere più qualcosa o qualcuno, con quello di lasciare andare che ci rende liberi, leggeri, perché abbiamo capito e percepito il senso bellissimo ed eterno dell'impermanenza.
Tutto quello che sta cambiando, e credo non solo nella mia vita, non tornerà a essere mai come prima, questo è un concetto che mi ripeto continuamente, ma senza più nessun rimpianto... anzi inventarmi ogni giorno come sarà domani attingendo con il Daimoku all'infinita saggezza che è dentro di me e sentendomi in linea ogni giorno di più con l'impegno che mi chiede il presidente Ikeda è la più grande esperienza che mi potesse capitare. (A. C.)

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Lasciare andare per fare spazio al nuovo

In prima persona

In prima persona

Appena ricevuto il Gohonzon, a metà degli anni duemila, mi sono lanciata nella sfida di trovare un lavoro che avesse caratteristiche di legalità, correttezza, continuità e solidità. È stata una battaglia, e mentre la combattevo miglioravo me stessa seguendo le guide del presidente Ikeda. Ho realizzato così il sogno di diventare giornalista pubblicista e stupendo tutti (me stessa per prima) nel 2006 ho avviato una testata giornalistica web.
Stremata però dal sentirmi, per la parte guadagni-da-lavoro, sempre in balia di una «infinita e dolorosa austerità», chiedo un consiglio di fede che mi incoraggia a credere al cento per cento nelle mie potenzialità e meno di un mese dopo firmo un contratto con uno studio legale. Le cose però iniziano subito ad andare male: avevo dichiarato la mia fede buddista alla titolare, buddista anche lei, e mi trovavo a subire il suo mobbing e quello dei suoi collaboratori. Tenendo duro, perché avevo bisogno di lavorare e perché non volevo entrare in contrasto con una compagna di fede, anche se in quel momento non praticava, prego per risolvere i nodi della mia vita e per sostenere la vita degli altri. Così due colleghe ricevono il Gohonzon e io imparo a non farmi paralizzare o azzerare dal mobbing diventando bravissima nel lavoro sino a rendermi indispensabile.
Ma i soldi sono sempre pochi, e il giorno in cui mi scopro con pochi spiccioli in tasca compro un salvadanaio e decido di fare esperienza quotidiana di zaimu. Determino che la trasformazione della mia vita passi attraverso l'attività, e all'inizio del 2011 apro la mia casa per le riunioni. Poco dopo la titolare decide di trasferirsi in un nuovo studio legale, e rompendo il suo lungo silenzio mi chiede di andare con tutto il gruppo nel nuovo studio: grazie a questa occasione riesco a superare il mio rancore verso di lei anche se quel lavoro non mi piace proprio. Decido allora di fare di più, e dedico le vacanze allo studio per gli esami di secondo livello.
Al rientro mi rendo conto quanto rimanere in quell'ufficio mi sia intollerabile e dopo due settimane lo lascio. Ai primi di ottobre ho già firmato un nuovo contratto, con un aumento di un terzo dello stipendio! Sembra il traguardo della mia maratona. Allora perché nel profondo sono ancora insoddisfatta?
Vedo quasi subito come, nascosto dietro i paraventi di uno stipendio alto e di un nome famoso, questo nei fatti sia un lager gestito da dittatori che traggono godimento dal terrorizzare i dipendenti agitando lo spauracchio del licenziamento. Avevo trovato il beneficio economico, ma mancava totalmente il valore.
Una comune mattina di una comune giornata lavorativa, dopo essere stata insultata e strapazzata per insulsi motivi, mi rifugio in un bagno. Tra un singhiozzo e l'altro, però, cominciano a risuonarmi in mente certe parole di Nichiren: «Credi in questo mandala con tutto il tuo cuore [...] Allora cosa potrà non essere realizzato?». Sento che non mi sarei lasciata abbattere, e decido che avrei utilizzato ciò che più mi faceva paura come leva del mio successo. Avrei trasformato in un punto di forza quel periodo di prova, nell'arco del quale mi si poteva licenziare in ogni momento, trovando entro il suo termine un lavoro migliore!
Nel rientrare alla scrivania colgo l'occasione per parlare della pratica alla collega che mi consolava. Contemporaneamente un'amica mi manda un messaggino: voleva il mio curriculum perché nell'azienda che lasciava serviva una sostituta. Desideravo quel posto di lavoro da quando lei lo aveva trovato! A distanza di due settimane avevo accettato la proposta dell'azienda. Oggi ho una mansione che mi valorizza, stimo colleghi e dirigenti e ne sono a mia volta stimata, pratico per proteggere azienda e lavoro dagli strali della crisi.
Quando, nonostante i rumori di sottofondo o i tanti errori (nostri, degli altri), liberamente e profondamente crediamo di essere entità della Legge mistica, allora facciamo sbocciare la nostra vita. (E. P.)

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Liberamente e profondamente

In prima persona

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C'è un indicatore che mi ha sempre aiutato e confortato spingendomi a insistere e facendomi sentire vicino al Gohonzon anche quando - come mi accade spesso da alcuni mesi - non riesco a recitare Daimoku più di mezz'ora al giorno: il senso di gratitudine.
Parlo proprio di quel profondo sentimento di pienezza e di gioia nel ringraziare la vita quando si manifesta illuminata, la capacità di riportare a una stessa realtà una fitta catena di eventi che "magicamente" si incastrano sotto i nostri occhi. Il desiderio di scrivere questo contributo nasce da quello che sto vivendo in questo preciso istante nella mia vita lavorativa.
Come ho già avuto la fortuna di scrivere (BS, 141), gli ultimi tre anni e mezzo li ho passati a ricostruire la mia vita professionale dopo aver perso il lavoro che facevo da più di dodici anni, ovvero da quando avevo iniziato a lavorare. Anni di ricostruzione, vissuti con determinazione e affidamento ma fatti di mattine, ore, giorni, settimane, mesi di grande disorientamento, pressione psicologica, mancanza di risorse economiche e tanta paura. La ripartenza con un lavoro, quello dell'agente immobiliare, completamente diverso dal precedente (il consulente musicale in televisione); un nuovo lavoro cominciato e imparato in una azienda con una impostazione per la quale dovevo assolutamente "sparire" come persona a beneficio del marchio che rappresentavo, in cui non ho mai avuto un briciolo di sicurezza economica (senza uno stipendio o una base fissa) e dove potevo guadagnare solamente una minima percentuale degli affari da me conclusi.
Questo per non parlare degli sforzi immani per eseguire al meglio un lavoro quasi interamente piegato alla dimensione del "porta a porta" con una stritolante rendicontazione giornaliera della attività effettuata.
Pochi soldi, zero tempo libero, una grande pressione e la vita familiare in forte sofferenza per un futuro che sembrava mancare di possibilità... navigavo a vista.
Con la pratica buddista nessuna bacchetta magica, ma tanti piccoli segnali impossibili da non notare che ti spingono a continuare.
La scorsa estate un click importante, la decisione di affrontare a quarantun anni l'esame per l'abilitazione al ruolo degli agenti immobiliari; la preparazione con un corso propedeutico obbligatorio e la necessità di rimettermi a studiare intensamente materie mai affrontate in precedenza. Mio figlio di dieci anni che in uno degli ultimi week end di studio matto e disperatissimo prima dell'esame commentava: «Papà quasi non lo riconosco più!».
Brillante superamento dell'esame e successiva decisione di lasciare l'azienda in cui lavoravo per passare in un'altra con il progetto di aprire un mio ufficio.
Un modo di lavorare esattamente antitetico al precedente, con piena possibilità di esprimere la mia personalità e una percentuale di partecipazione ai fatturati del tutto ribaltata a favore del professionista e non dell'azienda.
Tutto nato da un'unica decisione, quella di investire ogni cosa in un lavoro di cui avevo colto fino a quel momento quasi solamente gli aspetti stressanti e per me poco naturali (come suonare ai campanelli); la mia vita un tempo ferma, spinta solamente dal movimento che a forza tentavo di imprimergli, ora cominciava a muoversi tutta insieme. Il mio affannoso andare a cercare occasioni di lavoro in ogni angolo della città si è cominciato a trasformare in una serie di telefonate che tante persone tutt'oggi mi fanno per diventare miei clienti! Una serie di incredibili "casualità", incontri e buona fortuna, oltre alla determinazione e alla voglia di mettermi in gioco, mi hanno permesso di essere stimato e rispettato come persona affidabile ed efficace. Ho avuto riconoscimenti aziendali per gli affari conclusi e ho completamente trasformato la mia situazione economica con risultati mai raggiunti prima né nella precedente azienda immobiliare né nel primo lavoro in televisione.
Per finire, il 23 giugno mi sono sposato (dopo anni di dolore causati da un divorzio faticosissimo...). Io e Giorgia aspettiamo una bambina e mio figlio Niccolò non vede l'ora di abbracciare la sua sorellina. (J. M. P.)

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Con tutto il cuore

In prima persona

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Da bambina giocavo molto, sapevo giocare.
Le amichette mi aspettavano vicino alla cassa del negozio dei miei per scappare a giocare insieme appena possibile: sapevo anche lavorare da bambina. Perciò non ho proseguito gli studi, il lavoro non mi richiedeva grossi sforzi e mi dava soddisfazioni non solo economiche.
Ma era un ambito familiare, con tutte le dinamiche tipiche della famiglia e solo ora ho capito il valore del mio ruolo, delle mie capacità: in realtà ho sempre sottovalutato il lavoro. Infatti con la maternità l'ho lasciato senza riflettere più di tanto.
Lo scorso inverno, fortunosamente, ho avuto l'occasione di partecipare all'apertura di una clinica privata come responsabile dell'accettazione.
Non sapevo assolutamente nulla di ciò che dovevo andare a fare in un ambiente sconosciuto ma avevo una voglia matta di tornare a lavorare, di tornare a giocare.
È stato tutt'altro che facile, ma per fortuna avevo il Gohonzon, mi alzavo prestissimo per recitare perché solo il Daimoku poteva darmi la forza e il coraggio di fare bene cose che non avrei mai creduto di saper trattare. La gioia per le soddisfazioni che ho avuto non è mancata mai perché ci riuscivo, imparavo velocemente e quello che davo all'ambiente era apprezzato.
Ma soprattutto, con meraviglia, ho ritrovato quella bambina che giocava tanto. (D. E.)

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Una voglia matta di tornare a giocare

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Mi chiamo Valeria e sono buddista da dodici anni.
Sono un'illustratrice; questo vuol dire che di mestiere disegno. E vuol dire anche che il lavoro è scarso e che se possono non ti pagano.
All' inizio della mia avventura buddista ho recitato Daimoku per trovare nuovi clienti, e il risultato è che sono spariti pure quei pochi che avevo; spariti con metodo.
Un giorno ho preteso dal Gohonzon il mio cliente ideale, che avrebbe dovuto essere:
1. Spietato. Mi avrebbe chiesto il massimo, e io sarei stata costretta a tirare fuori capacità sconosciute.
2. Umanitario. Mi avrebbe commissionato lavori ad alto contenuto etico, dove il mestiere conta poco e l'emozione moltissimo.
3. Costante, affidabile.
Una settimana dopo esordivo come illustratrice (come attività volontaria) per la rivista Buddismo e società; cerco di ricordare questo mio inizio ogni volta che un nuovo illustratore mi propone i suoi disegni, e credo davvero che essere disperati e confusi sia un'ottima base di partenza.
Per questo cliente così particolare ogni volta ho illustrato la mia vita... così com'è, ma indirizzandola al lieto fine; come il Buddismo ci chiede di fare. Ogni due mesi ho fatto i conti col presidente Ikeda, e ho iniziato a mettere in pratica il suo consiglio di arrivare alla compassione attraverso la cura dei dettagli e dedicandomi al lavoro dietro le quinte. Questo è duro, per un artista.
Praticare e agire perché altri prendessero il mio posto e potessero fare la mia stessa esperienza, questa si è rivelata la mia vera battaglia... da sempre ho il timore costante che un esercito di illustratori bravissimi mi rubi il poco spazio che c'è e mi surclassi in qualità, per farmi finire poi - avverando finalmente la profezia di mio padre - sotto i ponti.
Numero dopo numero, ho cominciato a capire il punto di vista del Buddismo: la vita per vincere pretende il prezioso e unico contributo di tutti, e nella mia esperienza ho scoperto che per non essere esclusi bisogna per prima cosa non escludere; in questa direzione ho indirizzato la mia pratica e i miei sforzi. Oggi più illustratori collaborano alla rivista, e tutta la redazione accoglie e amplifica lo sforzo di tutti; sempre, per ogni numero. Le avventure di Gomma e Carboncino sono una sfida che passa per molte mani; una catena variabile di persone che ogni volta misticamente riscopre la propria unica mente... i bambini e le loro mamme e papà senza alcuna esperienza di pixel; classi intere con le loro maestre, macchine che percorrono chilometri nell'entroterra pugliese... una rete di relazioni umane elastica e dinamica, da mantenere gioiosa e operativa col Daimoku.
Va da sé che nel mio lavoro la trasformazione è stata al di là di ogni mia immaginazione. Oggi non disegno più prodotti pubblicitari da sola, in una stanza, ma collaboro con le scuole e disegno dal vivo per decine di bambini e per i loro genitori. Con mio marito realizzo spettacoli che parlano di poesia e bellezza, e insegno disegno ai giovani ventenni di una scuola di grafica: professorè! mi chiamano. Ho a che fare con persone di grande valore e umanità, che condividono con me i loro progetti, e mi danno fiducia, carica ed entusiasmo. Sono contenta la mattina e la sera di quello che faccio.
Guadagno poco, ma ho tutto quello che mi serve per vivere con dignità, e pure qualcosa di più.
Il mondo è pieno di gente e io penso: meno male. (V. G.)

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Il lavoro

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