È una premessa, un punto di partenza, l'inizio del futuro. Dare fiducia non è una delega, è un progetto di cui ci si assume la piena responsabilità. Un investimento cosciente, impegnativo, da coltivare.
La fiducia è creativa, apre la vita, genera speranza, legami, coesione. È il terreno per lo sviluppo umano, il tessuto invisibile di una società sana.
Uno speciale a tante voci, buddiste e non, per raccontare da diverse angolazioni qual è la posta in gioco

Meno di un quarto degli italiani pensa che gran parte della gente sia degna di fiducia e più di quattro italiani su cinque che «bisogna stare molto attenti».[ref]https://www.istat.it/it/files/2019/02/Report-soddisfazione-cittadini-condizioni-vita-2018.pdf[/ref] La fiducia è un orientamento individuale, che però ha conseguenze che vanno ben al di là della sfera individuale. La fiducia è quello che tiene insieme le nostre società.
Daisaku Ikeda scrive: «Il primo passo nella vita è credere; tutto parte da questo. Allo stesso modo, nessuna società può esistere senza legami di fiducia».[ref]Daisaku Ikeda, La saggezza del Sutra del Loto, vol. 1, Mondadori, 2005, p. 158.[/ref] E poi cita Josè Ortega y Gasset: «Le nostre credenze costituiscono la base della nostra esistenza, il terreno sul quale si dispiega la vita umana». E quindi, quando perdiamo la fiducia o siamo traditi, è come se ci mancasse la terra sotto i piedi. Si restringe il nostro universo e interagire con gli altri diventa più difficile. È forse per questo che Dante confina nel girone più profondo dell’inferno i traditori, perché chi tradisce la fiducia ci destabilizza e mina le basi della convivenza civile. Cosa può esserci di più grave?
La diffidenza è come un virus. Si diffonde velocemente da un cuore all’altro. E si alimenta facilmente tra cuori feriti: quando la nostra fiducia negli altri o nelle istituzioni viene tradita, siamo confortati/e da chi a sua volta diffida. Ed è difficile da curare, impossibile se non riconosciamo di essere malati/e.
Tutti e tutte vorremmo vivere in un mondo in cui fosse possibile non dover chiudere la porta di casa. C’è qualcosa che possiamo fare per costruire un tale mondo? C’è qualcosa che possiamo fare per contrastare le forze che invece seminano sfiducia?
Riconoscere il "divino" in ogni essere umano è la sorgente del rispetto e della fiducia. È il modo con cui le religioni promuovono la cooperazione tra le persone e la pace. Anche nel Buddismo, riconoscere l’infinito potenziale di ogni individuo è di fondamentale importanza. È la base della pratica e del comportamento umano. Noi buddisti/e riconosciamo il divino (cioè la Buddità) in noi attraverso la pratica di riconoscerlo negli altri, allenandoci a mondare il nostro cuore dalla sfiducia e dalla diffidenza mediante sforzi concreti e quotidiani. Non c’è un altro modo di stabilire la pace nel paese. La fiducia nell’altro/a, nella società e nell’umanità non sono più oggetto di scelta personale. Diventano il nostro campo di battaglia interiore.
Una fiducia che deriva semplicemente dalle somme che tiriamo sulle nostre esperienze passate è una fiducia passiva. Ma la fiducia può anche essere attiva. È l’investimento che facciamo e che curiamo passo per passo.
L’esempio di Daisaku Ikeda traccia una rotta chiara in questa direzione. A dispetto delle crisi globali che incombono sui nostri prossimi decenni, Ikeda vede lontano nei secoli la fioritura di un’epoca luminosa di umanesimo e pace. Da dove proviene la sua incredibile fiducia nelle persone e in un’umanità che sembra impegnata in conflitti senza fine e tanto accecata dalle leggi del profitto da non vedere la distruzione del pianeta?
Leggendo i suoi scritti, scopriamo che la fiducia – quando è attiva – confina e si fonde con la determinazione. Una determinazione non arbitraria, ma basata su una visione della vita che ha le sue radici nel Sutra del Loto. L’insegnamento che il suo maestro Josei Toda, e il maestro di Toda – Tsunesaburo Makiguchi – prima di lui hanno vissuto nella loro carne, esattamente come Nichiren sette secoli prima. Innumerevoli altri uomini e donne hanno percorso una rotta simile. Persone che noi ricordiamo anche se sono state messe in croce dai loro contemporanei. La sorgente di persone di questo tipo non si esaurirà mai. Perché l’avidità e l’animalità hanno bisogno di una causa esterna, la Buddità di un impegno personale, di una decisione interiore.
Questo speciale nasce dal desiderio di approfondire tali questioni attingendo sia dal Buddismo, sia dall’economia, dal diritto e dalle neuroscienze, e dall’esperienza individuale. Per riscoprire la sorgente a cui anche noi possiamo attingere per stabilire la fiducia nella nostra vita e nella nostra società, per riconoscere il virus e guarire, per stabilire la pace nel paese attraverso l’adozione del corretto insegnamento. Buona lettura.

Matteo Marsili

La strada della fiducia

Coltivare e dimostrare fiducia nell’essere umano è la pratica del Sutra del Loto. Il cuore di questo insegnamento, racchiuso nella  figura del Bodhisattva Mai Sprezzante, si mostra negli incoraggiamenti e nelle parole di lode che migliorano la vita di chi le esprime e di chi le riceve, e dunque potenzialmente l’intera società 

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Una volta Daisaku Ikeda affermò: «L’essenza degli insegnamenti buddisti è semplice: apprezzare ogni persona» (Cos’è la felicità, Esperia, p. 100).
Se volessimo condensare l’essenza del Buddismo in un semplice concetto, potremmo affermare che esso si fonda sull’assoluta convinzione che ogni essere umano possiede un meraviglioso potenziale, fatto di felicità, libertà, grande forza vitale e purezza. La consapevolezza di possedere questa natura illuminata è ciò che nel Buddismo si chiama fede. La convinzione che anche tutte le altre persone hanno questo meraviglioso potenziale, che può consentire loro di essere assolutamente felici e realizzate, è ciò che possiamo definire “fiducia”. Credere in se stessi e negli altri, coltivare la fede e la fiducia, è la pratica buddista.
Il cuore di questo semplice e allo stesso tempo profondissimo insegnamento è racchiuso nella figura del Bodhisattva Mai Sprezzante descritta nel Sutra del Loto. È la storia di un bodhisattva vissuto nel lontano passato, la cui pratica consisteva nell’inchinarsi con riverenza di fronte a chiunque incontrasse e lodarne l’inerente natura di Budda. La fiducia assoluta nel meraviglioso potenziale dell’essere umano è rappresentata dal comportamento di questo personaggio. Gli insulti e le violenze che talvolta riceveva non riuscirono mai a smontare le sue convinzioni, e col passare del tempo la sua umanità brillò a tal punto che anche coloro che lo avevano disprezzato divennero suoi discepoli, e così poterono ottenere a loro volta I’Illuminazione.

La suprema condotta umana

Il Daishonin scrive: «Il cuore di tutti gli insegnamenti della vita del Budda è il Sutra del Loto, e il cuore della pratica del Sutra del Loto si trova nel capitolo “Mai Sprezzante”. Cosa significa il profondo rispetto del Bodhisattva Mai Sprezzante per la gente? Il vero significato dell’apparizione in questo mondo del Budda Shakyamuni, il signore degli insegnamenti, sta nel suo comportamento da essere umano» (I tre tipi di tesori, RSND, 1, 756).
Il Buddismo non è una filosofia astratta, ma un modo di vivere molto concreto: un Budda non è un essere straordinario, ma una persona profondamente consapevole del potenziale positivo racchiuso in sé e negli altri che lotta per far sì che tutti e tutte possano manifestarlo.
Nichiren chiarisce che rispettare gli altri, come viene esemplificato nelle azioni del Bodhisattva Mai Sprezzante, costituisce l’essenza della pratica buddista e rappresenta l’espressione massima della nostra umanità, il supremo comportamento umano.  

L'atto coraggioso di infondere fiducia

Il rispetto espresso nel comportamento del Bodhisattva Mai Sprezzante non si limita infatti a un semplice riguardo nei confronti degli altri, è un atto coraggioso di impegnare attivamente la nostra umanità. Non è un atteggiamento asettico o distante, ma consiste nell’infondere coraggio e fiducia in sé, dare forza, accompagnare e sostenere. La fiducia di cui parla il Buddismo è autentica e concreta, si manifesta nel credere nelle persone, lodarle e incoraggiarle credendo sempre nella loro vittoria. Anche quando la speranza sembra essere finita, anche quando le circostanze vorrebbero farci credere il contrario.
«Abbiamo la capacità – scrive il presidente Ikeda – di trasmettere coraggio e forza agli altri attraverso le parole di incoraggiamento. La lode rincuora le persone, le fa sentire felici, più brillanti e positive. […] Avanziamo con entusiasmo, lodando e applaudendo reciprocamente i nostri sforzi» (NR, 608, 14). E aggiunge: «I saggi sanno apprezzare quegli aspetti che rendono le persone intorno a loro individui unici e fanno in modo che riescano a tirare fuori il loro pieno potenziale. Questo è anche il modo per guadagnare la fiducia e il rispetto di tutti» (Ibidem). Tale atteggiamento dovrebbe essere la caratteristica essenziale di ogni leader, sia nell’ambito della società sia all’interno della comunità buddista.

I benefici delle parole di lode

Quella del Bodhisattva Mai Sprezzante non è una pratica egoistica, volta solo al conseguimento della propria Illuminazione. Al contrario ha il duplice scopo di manifestare la propria Buddità e accendere la scintilla per attivare quella di chi si incontra. Le parole che esprimono fiducia, siano esse incoraggiamenti o espressioni di lode, hanno infatti un enorme potere nella nostra vita e nella vita di coloro a cui sono dirette. Scrive a tale proposito il Daishonin: «Quando una persona riceve grandi lodi dagli altri, sente che non esiste difficoltà impossibile da affrontare. Tale è il coraggio che generano le parole di lode» (Il vero aspetto di tutti i fenomeni, RSND, 1, 341). Shakyamuni e Nichiren non esitavano mai a lodare le persone.
La fiducia e il sostegno tra i compagni e le compagne di fede della comunità buddista è estremamente importante. Nichiren afferma: «Il Budda predicò il Sutra del Loto per un periodo di otto anni, e otto caratteri riassumono il messaggio che egli ha lasciato per gli esseri viventi di quest’epoca successiva, l’Ultimo giorno della Legge» (La raccolta degli insegnamenti orali, BS, 123, 53).
Questi otto caratteri, che racchiudono l’essenza del Sutra del Loto, appaiono nel capitolo ventottesimo: «Dovrai alzarti e salutarla da lontano, mostrandole lo stesso rispetto che mostreresti a un Budda» (SDLPE, 440). La persona a cui bisogna mostrare il massimo rispetto è colei che accetta e sostiene il Sutra del Loto. Il Daishonin sottolinea che questo è «il punto principale che [il Budda Shakyamuni] desiderava comunicarci» (Ibidem).
«Lodare una persona che abbraccia il Sutra del Loto – scrive Daisaku Ikeda – equivale a lodare la Legge». E aggiunge: «Avere cura dei figli del Budda che si dedicano a kosen-rufu significa aver cura della propria Buddità e rafforzarla. Più si lodano coloro che si stanno sforzando diligentemente e più sta aumentando la fortuna e la vitalità della propria vita e dell’organizzazione. Avere lo spirito di lodare costantemente i figli del Budda è anche la prova di un forte stato di Buddità» (Il Gosho e la missione di kosen-rufu, Esperia, pp. 150-151).
Questo rispetto e questa fiducia, anche se apparentemente semplici nella loro formulazione, sono esattamente quell’energia primaria in grado di determinare una trasformazione positiva della società. Come sottolinea ancora Daisaku Ikeda: «La chiave per far fiorire l’umanità di cui parla il Buddismo sta nella convinzione incrollabile nella bontà della gente e nella dedizione a coltivare questa bontà in sé e negli altri» (https://www.sgi-italia.org/bodhisattva-mai-sprezzante/).

Lodovico Prola

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[box] L'EFFETTO PIGMALIONE

Il ricercatore americano Robert Rosenthal negli anni sessanta compì un esperimento sottoponendo una classe di una scuola elementare a un test di intelligenza. Disinteressandosi del reale risultato del test, selezionò casualmente un numero ristretto di bambini e bambine e rivelò agli insegnanti che si trattava di persone molto intelligenti. Dopo un anno verificò che i componenti del gruppo scelto avevano migliorato notevolmente il proprio rendimento scolastico fino a divenire i migliori della classe. Questo risultato si verificò grazie all'influenza positiva che gli insegnanti erano riusciti a trasmettere avendo fiducia nelle capacità degli alunni e delle alunne, che a loro volta si sentivano apprezzati e desiderosi di confermare la stima ricevuta. "L'effetto Pigmalione" o “effetto Rosenthal” non riguarda solamente la sfera scolastica: opera nell’ambito lavorativo, soprattutto nella relazione tra dirigenti e dipendenti, oppure in quello familiare nel rapporto genitori-figli e in tutti quei contesti dove si sviluppino rapporti sociali. [/box]

La pratica essenziale

Ciò che la natura umana legge come un limite, se viene visto nell’ottica del Buddismo contiene una certezza: è un "inverno che si trasforma sempre in primavera", dove la fiducia che ciò accada è la manifestazione concreta della nostra fede di essere Budda

Il Buddismo inizia con un punto di domanda. Un «come posso fare in modo che tutti raggiungano l’Illuminazione?», «come posso realizzare questa cosa per me e per gli altri e nel frattempo illuminare la mia vita?». Domande difficili e alte o semplici e pratiche. Questioni che tengono insieme la fede assoluta nella Legge che regola l’universo della vita e quella fiducia in cui si manifesta ogni giorno la prova concreta dello scegliere di vivere come un Budda. La risposta è sempre la stessa. Budda è la risposta.
Il Buddismo è una religione in cui, con un paradosso, domanda e risposta coincidono come due momenti diversi di un processo evolutivo che inizia ogni volta che provo a rispondere a queste domande come un Budda. Come spiega Katsuji Saito in una lezione di qualche anno fa: «Aver fede nel Gohonzon significa dunque credere nella forza della Legge mistica che trasforma i tre sentieri nelle tre virtù. Non importa se ora ci troviamo nel circolo vizioso delle illusioni e desideri, del karma e della sofferenza, la cosa fondamentale è risvegliare nel proprio cuore una forte fede che crede nella potenzialità di trasformazione della Legge mistica in qualunque momento e a partire da qualsiasi condizione vitale» (BS, 143, 7).
Si tratta, quindi, di una continua sfida a spostare quello che abbiamo percepito come un limite in una certezza. Quello che la natura umana legge come un gradino, un blocco, un muro muove la fiducia incrollabile del Buddismo, quella convinzione assoluta che, per citare alcuni noti princìpi e titoli di Gosho del Daishonin (L’inverno si trasforma sempre in primavera, Virtù invisibile e ricompensa visibile, Le illusioni e i desideri sono Illuminazione e L’inferno è la Terra della Luce Tranquilla), contiene un “sempre”, ci dà la certezza di un verbo che esprime un’identità tra opposti. Serve fede per credere che recitare Nam-myoho-renge-kyo produrrà un beneficio, fiducia nel sapere che sposteremo un centimetro più avanti la nostra sfida, come esseri umani, verso quel “perfettamente dotati” che ci migliora. Come spiega Daisaku Ikeda, «le piante non sbocciano a meno che non abbiano pienamente sperimentato il freddo dell’inverno. Questa è la “saggezza” delle piante che le mette in grado di fiorire in primavera. Anche la vita e la pratica buddista seguono questo principio. L’inverno delle avversità è il momento in cui ricaricare le batterie e temprarci in vista dell’arrivo di una meravigliosa primavera» (BS, 168, 25). La saggezza della vita, la nostra saggezza ci pone davanti a uno spostamento del limite per provare che, grazie all’inverno di quella sfida, immagazzineremo la forza per manifestare l’energia della Buddità.
L’essere umano non illuminato guarda la primavera o l’inverno di per sé, come stagioni isolate e separate, il Budda dice e scrive nella sua vita il «sempre» che le separa come due eventi distanti eppure compresenti. Dunque, la fiducia è una manifestazione concreta e necessariamente ripetuta della nostra fede. Il Sutra del Loto definisce la fede in tre modi: adhimukti (“fede e comprensione”), shradda (“fede come curiosità”) o prasada (“fede pura”). Sembrano tre momenti di un percorso, di percorsi. La fiducia chiede di capire e sperimentare, si avvale della curiosità che sospinge un passo avanti fuori dall’immobilità del punto interrogativo, verso la risposta che non è mai al di là «dell’uguaglianza e della dignità di tutti gli esseri viventi» (SSDL, 1, 261-262). E allora sì ecco il miracolo della trasformazione che mai sarebbe avvenuta senza quella domanda e senza quel «sempre» della Buddità che risponde alla sfiducia, al dubbio, al non credere, con la prova concreta di una fede ben riposta perché ricercata, compresa e sperimentata. 

Roberto Carvelli

«Sempre» è la risposta

C’è una scintilla nuova e antica che scocca quando un sistema nervoso comunica direttamente con un altro. È una connessione originale, uno scambio che non può avvenire in altro modo, sono le due retine che si incontrano (uniche parti del sistema nervoso esposte all’esterno), sono gli occhi che si rispecchiano.
Guardarsi negli occhi in maniera completamente libera, voluta e sentita, è un'esposizione che non consente finzioni, e quando accade succede qualcosa di eterno (senza tempo né spazio) in pochi istanti. Non succede con facilità, di solito non con estranei, perché, se succede, non si è più estranei e il pudore di questo inibisce un po'. Quando accade ho l'impressione che le anime si tocchino (in una versione meno “neuro”); in effetti avviene qualcosa di fortissimo come un'impronta, come essersi riconosciuti nella stessa materia. Non è facile farlo apposta e reggerlo con curiosità, è esplorazione allo stato puro, è esposizione totale.
È l’origine della relazione.
È andata così quando ho incontrato per la prima volta l’adolescente straniero di cui ero da poche ore diventata tutrice volontaria: ci siamo guardati una prima volta con curiosità e con la consapevolezza di iniziare un viaggio umano insieme che ci avrebbe cambiati.
Ci possiamo fidare? Ci possiamo fidare.
Poi di nuovo, e la sensazione è stata la stessa: io ci sono, io anche, ci possiamo fidare, ci conosceremo. E così senza parlare la stessa lingua, senza avere la stessa cultura, senza conoscere le nostre storie, senza sapere chi fosse l’altro, io diventavo legalmente responsabile per lui e lui si sarebbe fidato delle mie scelte per il suo futuro.
Da allora sono trascorsi quasi due anni, tanto difficili, ma sorprendenti. Prima con lui in casa famiglia poi, dall’inizio del lockdown, vivendo insieme, in una rivoluzione di vite che ci ha spesso stravolti e che ha richiesto sempre lo stesso ingrediente, la fiducia. La fiducia nel nostro viaggio relazionale, ma anche una fiducia più ampia, profonda, esistenziale.
Per me ha richiesto ogni giorno di orientarmi con la preghiera sull’apertura, sulla scoperta, sul cambiamento, sulla possibilità che la vita si incanali come un fiume nel suo letto nonostante i tronchi e i massi che ne intralciano il fluire e sembrano talvolta interromperlo per sempre.
Pensavo la fiducia come una decisione che si prende di volta in volta e ho scoperto che è una scelta più ampia, profondamente esistenziale, più morbida e fluida di una decisione, ma larga e pervasiva di tutti i campi della vita.
Così succede anche nel mio lavoro di psicoterapeuta, tutto inizia da quella scelta reciproca di fidarsi, guardarsi negli occhi e iniziare un viaggio di cambiamento insieme, in cui io ho scelto ancora di nutrire una fiducia aperta, profonda, ampia, nella relazione più che nella persona in sé. È la relazione che ha potere infinito, è la relazione che muta la storia, così come nei dieci fattori è la relazione il fattore dinamico. È nella relazione il valore, sosteneva Makiguchi, perciò possiamo trasformare tutto in una direzione evolutiva, creativa, luminosa anche solo partendo da noi. Anche di fronte alla rottura, alla delusione, alla menzogna. Il tradimento è un dolore traumatico, persistente, annichilente, molti disturbi psicologici nascono dalla rottura della fiducia, antica, bambina, innata; e ogni volta che risuccede il dolore è bruciante, porta fuori da noi sentimenti dolorosi, rancore, odio, senso di vuoto.
Il recupero, ho imparato, avviene con la scelta che riporta il respiro. La personale libera scelta di coltivare fiducia al di là delle circostanze, come narra Ikeda nel suo libro La scelta di Alessandro, così come una vivace onda d’acqua che superando tronchi e massi scorre nel suo letto realizzando il suo percorso naturale, da sempre. 

Vanessa Donaggio, psicoterapeuta

Quella scelta reciproca

Sfiducia e fiducia sono costrutti cognitivi associati ad aree diverse del cervello: la prima interessa sistemi più ancestrali, la seconda zone più evolute. Ma il sistema di controllo della sfiducia si può allenare e correggere, quando va contro le nostre intenzioni

La fiducia è un’esperienza fondante dell’interazione sociale tra esseri umani e, insieme a percezione, memoria, ragionamento, attenzione, linguaggio ed emozioni è da tempo oggetto di studio delle neuroscienze. Questi studi fanno luce sulla natura consapevole e inconscia dei nostri comportamenti individuali e di quelli tra le persone. Essi inoltre indicano che nasciamo con la predisposizione naturale a provare fiducia. Che siamo dotati di un ampio spazio di fiducia lo dimostra il fatto che crediamo in Babbo Natale, nella fatina dei denti e siamo naturalmente inclini alla religione.[ref]Barrett, Justin L., “The God issue: We are all born believers”, New Scientist, 213.2856, 2012, pp. 38-42.[/ref] Nasciamo fidandoci. È solo quando raccogliamo un numero sufficiente di evidenze del contrario, che cambiamo le nostre credenze.
In effetti il cosiddetto bias egocentrico, una ridotta capacità di distinguere noi stessi dagli altri, è connaturato in noi. Normalmente, nei bambini la consapevolezza che i loro stati mentali sono distinti da quelli degli altri comincia intorno ai 18 mesi e si completa intorno ai 3-4 anni circa. Questa capacità di mentalizzazione o Teoria della Mente è alla base dello sviluppo dell’empatia. Essere empatici non significa necessariamente provare esattamente le emozioni che l’altro prova (empatia emotiva). Possiamo anche capire che cosa l’altro stia provando o pensando (empatia cognitiva), senza rimanere coinvolti emotivamente. La relativa indipendenza di queste due componenti è sostenuta da osservazioni cliniche.

L'interazione con gli altri

Gran parte della nostra dotazione cognitiva ed emotiva è coinvolta nell’interazione con gli altri: partendo dal riconoscimento visivo di caratteristiche salienti del volto e della postura, e con l’apporto degli altri sensi, siamo in grado di identificarli e riconoscerli. Inoltre le strutture del sistema limbico ci consentono di leggerne le emozioni, oltre che di riconoscere quelle che proviamo personalmente. Integriamo tutti questi input percettivi per attribuire agli altri l’appartenenza a categorie sociali o gruppi, in base al genere, alla razza, alla religione, alla classe sociale, all’aspetto fisico, eccetera. Questo rapido processo induttivo, che è comune anche ad altri ambiti della nostra vita mentale, ci permette di attribuire velocemente emozioni, intenzioni, desideri e credenze alle persone che incontriamo. Si tratta tuttavia di un processo che può portarci a conclusioni affrettate quanto inesatte, e ad assumere comportamenti caratterizzati dal pregiudizio.
Questi meccanismi sono infatti alla base dell’esperienza della sfiducia o della diffidenza. La sfiducia è collegata alle aree del sistema limbico, come l’amigdala, che sono associate all’allarme, alla paura e a stati emozionali intensi e repentini, specie se negativi.[ref]Schipper, Marc and Petermann Franz, “Trust–A Subject for Social Neuroscience?”, Zeitschrift für Neuropsychologie, 22.4, 2011, pp. 245-255.[/ref] Queste aree ancestrali del nostro cervello si sono sviluppate con lo scopo primario di garantire la sopravvivenza. Si sono evolute per rispondere rapidamente a stimoli potenzialmente pericolosi, anche prima che le altre aree del cervello, deputate a processi più riflessivi, si attivino.

L'esperienza della fiducia

Fare l’esperienza della fiducia, invece, attiva aree più evolute della neo-corteccia, deputate a valutare e prevedere ricompense e rischi.[ref]Ibidem.[/ref] La fiducia spesso parte svantaggiata perché, quando per esempio incontriamo qualcuno  diverso da noi, prima ancora di poter esercitare le nostre capacità riflessive, l’amigdala fa scattare un allarme inconscio e automatico. Siamo inconsapevoli di queste valutazioni negative, ma la nostra diffidenza affiora nell’espressione del viso o nella sudorazione.
Queste osservazioni empiriche suggeriscono che la sfiducia potrebbe non essere semplicemente l’opposto della fiducia. Per il nostro cervello sembrano essere costrutti cognitivi diversi.
Elizabeth Phelps e i suoi collaboratori della New York University sono stati tra i primi a studiare i correlati neurofisiologici di queste reazioni involontarie quando osserviamo i volti di persone appartenenti a un gruppo etnico diverso dal nostro.[ref]Kubota, Jennifer T., Mahzarin R. Banaji, and Elizabeth A. Phelps, "The Neuroscience of Race", Nature Neuroscience, 15.7, 2012, pp. 940-948.[/ref] Essi hanno anche identificato altre aree del cervello che, al contrario, si sono sviluppate per sorvegliare il comportamento dell’amigdala e correggerlo, quando va contro i nostri atteggiamenti e convinzioni consapevoli. Quindi il nostro sistema di controllo della sfiducia non è impermeabile ai suggerimenti della parte più ragionevole di noi stessi.[ref]È interessante aggiungere che i pregiudizi di chi appartiene al gruppo dominante in una certa cultura colpiscono solo, si fa per dire, gli altri. Invece sappiamo che per esempio gli afro-americani rivolgono le proprie valutazioni negative non solo verso i bianchi ma anche verso loro stessi.[/ref]
Infine, è tutta colpa dei neuromodulatori se ci viene facile fidarsi degli amici e diffidare dei nemici: l’ossitocina, che è indotta da comportamenti affettivi, inibisce il sistema limbico e quindi ci rende più facile aver fiducia negli altri, mentre il testosterone, indotto da situazioni competitive, inibisce la fiducia interpersonale. Le neuroscienze ci confermano che il comportamento umano è la chiave per accendere o spegnere la fiducia.

Raffella Ida Rumiati, neuroscienziata, Sissa  (Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati), in collaborazione con Matteo Marsili, ricercatore, Abdus Salam International Centre for Theoretical Physics

La chiave di accensione

Credibilità, fiducia, empatia, responsabilità: se mancano questi requisiti si riducono i profitti, i salari e l’occupazione, gli scambi vengono scoraggiati e diminuisce la ricchezza; è l’intero sistema economico a soffrirne e tutta la società ne paga le conseguenze

Le nostre economie, specie nell’ultimo secolo, sono state modellate dalla “mano invisibile” a cui Adam Smith si riferiva quando scrisse che «non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dalla cura che essi hanno per il proprio interesse. Non ci rivolgiamo alla loro umanità ma al loro interesse personale».[ref]Adam Smith, La ricchezza delle nazioni, Utet, Torino, 1993.[/ref]  L’idea è che il conseguimento del profitto individuale sia sufficiente per far funzionare un’economia, come se ci fosse una “mano invisibile” che coordina tutti i nostri sforzi attraverso i mercati. Ciò ha promosso lo sviluppo di un’economia basata su rapporti sempre più spersonalizzati, fatta di centri commerciali, globalizzazione ed e-commerce, dove l’interazione economica non richiede più l’interazione fisica. Questi sono i binari sui quali l’economia globale corre come un treno, distruggendo il nostro ambiente, togliendo dignità al lavoro e creando disuguaglianze sempre più grandi tra i poveri e i ricchi.
Tuttavia le ricorrenti crisi finanziarie, e in particolare quella del 2008, ci hanno ricordato che c’è qualcosa che non va. Ciò che è crollato nella crisi del 2008, insieme ai titoli azionari, è la fiducia, che nei mercati è quantificata dai tassi di interesse (che sono schizzati alle stelle).
E difatti proprio lo stesso Adam Smith si è soffermato lungamente sul principio di sympathy, che potremmo (non del tutto propriamente) tradurre con “empatia”. Anzi, a dire il vero, di sympathy parla già nel volume Teoria dei sentimenti morali, del 1759, un testo che precede il più famoso La ricchezza delle nazioni del 1776. E, al di là dall’immaginario condiviso sull’Homo oeconomicus, un essere umano spietato e focalizzato unicamente sulla massimizzazione del proprio profitto, Smith ci rivela sin dal principio che un substrato di fiducia è necessario non solo per la riproduzione del sistema, ma anche ai fini della crescita economica di un paese.
E questa è una delle ragioni per le quali gli economisti (e le economiste) si occupano di fiducia: perché è un tema fortemente correlato a quello dello svolgimento dell’attività economica. L’assenza di fiducia, infatti, determina conseguenze negative per il sistema economico, riducendo i profitti, i salari e il tasso di occupazione, mentre quando vi è fiducia gli scambi commerciali vengono facilitati e sono incoraggiate le attività economiche che creano ricchezza.[ref]Jean Philippe Platteau (1994), "Behind the market stage where real societies exist-Part I: the role of public and private order institutions", Journal of Development Studies, 30(3), 533-577.[/ref]

La reciprocità ci fa più responsabili  

Anche in economia la fiducia si basa sulla reciprocità. Non a caso, l’economia comportamentale ci conferma come, comunicando a una persona che in lei riponiamo la nostra fiducia, uno dei risultati che otterremo sarà proprio una maggiore possibilità che anche lei si comporti di conseguenza in maniera più affidabile e fiduciosa nei nostri confronti.[ref]Armin Falk &amp; Michael Kosfeld (2006), "The Hidden Cost of Control", American Economic Review, 96(5), 1611-1630. [/ref] Quindi, avviamo un circolo positivo di creazione di fiducia. In questo modo alimentiamo un processo di assunzione di responsabilità di cui il nostro sistema (non solo economico) ha in questo momento particolare necessità.
La teoria dei giochi[ref]La teoria dei giochi è una branca della micro-economia che studia le interazioni strategiche tra individui razionali che ambiscono a massimizzare il profitto individuale.[/ref] ci insegna inoltre che, anche tra individui razionali interessati solo a massimizzare il proprio profitto, l’interazione ripetuta è fondamentale nel sostenere la cooperazione anche quando questa comporta un sacrificio individuale. Perché ci aspettiamo che, per mantenere il nostro rapporto (reciprocità), anche le persone con cui cooperiamo saranno disposte a fare sacrifici, se necessario. Gli economisti hanno scoperto che un aspetto importante per mantenere la cooperazione è che gli altri ci considerino credibili. La credibilità e la fiducia sono aspetti incospicui che la maggior parte delle volte non hanno bisogno di essere esplicitati. In definitiva, il fornaio da cui andiamo a comprare il pane lo conosciamo e andiamo da lui perché pensiamo che ci tenga a fare bene il pane, e lui lo sa ed è per questo che si sveglia ogni mattina. La teoria dei giochi ripetuti ci insegna che la fiducia è importante e che possiamo espandere il cerchio delle persone di cui ci fidiamo interagendo ripetutamente con loro.  

L’imprenditoria empatica dell’era post-Covid

Se gli anni della globalizzazione hanno contribuito alla diffusione di un sistema culturale (ma anche di consumo e di produzione) scevro e distante dal concetto di responsabilità, Mark Carney (ex governatore della Banca Centrale del Canada e, prima ancora, di quella del Regno Unito), in un bell’articolo su The Economist,[ref]https://www.economist.com/by-invitation/2020/04/16/mark-carney-on-how-the-economy-must-yield-to-human-values.[/ref] già nel mese di aprile dello scorso anno affermava che l’economia post-Covid avrebbe potuto porre al centro un nuovo sistema valoriale, scindendo finalmente l’economia di mercato da quella che ormai era divenuta una società di mercato. Carney ribadiva che questo obiettivo sarebbe stato raggiunto grazie a un nuovo senso di responsabilità, che avrebbe potuto vedere protagonisti in primo luogo i produttori. La ricerca del profitto, di cui ogni impresa si nutre, può infatti essere conseguita anche attraverso una forma di imprenditoria che potremmo definire empatica. Ovvero, attraverso un’imprenditoria che riconosca e si faccia carico della propria responsabilità nei confronti dell’ambiente e della società nel suo complesso. E che crei legami di fiducia con le persone che vi lavorano e con la rete delle imprese che la riforniscono.
La rete di interazioni che si formano in questo modo non è solo benefica per gli individui, ma anche per la società nel suo insieme. Questo è quello che Robert D. Putnam ha scoperto. Studiando proprio le diverse regioni del nostro paese ha riscontrato che lì dove la rete sociale era più densa di relazioni, l’economia cresceva di più.[ref]Cfr. Robert D. Putnam, La tradizione civica nelle regioni italiane, Mondadori, 1993.[/ref] Ciò ha portato a riconoscere la rete di relazioni tra individui come un “capitale sociale” che, come e forse più di quello finanziario, è il motore nascosto delle nostre economie.
E questo è quanto impariamo grazie a Daisaku Ikeda, che ci insegna «una profonda filosofia di fiducia e rispetto per gli esseri umani, radicata nella convinzione che tutti possiedono la saggezza per creare il più grande valore».[ref]BS, 209, 5.[/ref]
Quindi oggi, all’indomani di una crisi pandemica, economica ma anche sociale che ci mette di fronte alla ricerca di nuovi paradigmi, perché non ripartire proprio dalla creazione di valore? E anche dalla tessitura di una rete di relazioni di fiducia?
Nella Proposta di pace 2021 Ikeda afferma: «Ho fiducia nella capacità dell’umanità di trasformare le difficoltà in energia per la creazione di valore».[ref]BS, 208, allegato, 34.[/ref] E la nostra responsabilità, come esseri umani e come buddiste e buddisti, è far sì che ciò accada.

Azzurra Rinaldi, direttrice della School of Gender Economics, Università Unitelma Sapienza

Una rete di interazioni benefiche

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Il dialogo aiuta a trovare obiettivi condivisi intorno ai quali stabilire una comprensione capace di portare a una pace duratura. Dialogando possiamo mettere a confronto le rispettive culture e i princìpi religiosi, evidenziando i valori che hanno in comune. Un’esperienza sul campo


«Tuttavia per ventisette anni […] non mi sono mai arreso e ho continuato a parlare ancora più forte, come la luna che cresce o la marea che si alza»:[ref]Nichiren Daishonin, Lettera al prete laico Nakaoki, RSND, 1, 892.[/ref] nella vita di Nichiren il dialogo ha rappresentato un’attività cruciale.
Il dialogo non solo favorisce la conoscenza ma stabilisce la fiducia, un elemento fondante per un futuro basato sul rispetto della dignità della vita. Ogni società, organizzazione, Stato si fonda sulla fiducia; se questa viene meno, vengono minate le fondamenta stesse del patto sociale alla base dell’evoluzione e del benessere della comunità umana, la quale non può che avviarsi verso un lento ma inesorabile declino. La fiducia genera fiducia – scriveva Albert Einstein –; se non c’è fiducia è impossibile instaurare una collaborazione fruttuosa.
Daisaku Ikeda, in una Proposta di pace di qualche anno fa, spiega che la Soka Gakkai ha la missione di impiegare l’energia spirituale che scaturisce dalla profondità della vita per combattere quelle forze – violenza, autorità, materialismo – che continuano a violare la dignità umana. Il suo è un invito a ingaggiare una battaglia spirituale che consiste nel non perdere mai la fiducia nel potere delle parole, nel continuare ad asserire fermamente la centralità del dialogo in ogni circostanza.[ref]D. Ikeda, Proposta di pace 2003, BS, 97, 37. [/ref]
Ikeda ricorda che il dialogo ci permette di approfondire la conoscenza degli altri e sviluppare il rispetto per la dignità della loro vita, costruendo una solida fiducia reciproca. Dialogando possiamo mettere a confronto la nostra cultura con quella degli altri, i princìpi del Buddismo con quelli di altre religioni, evidenziando i valori che hanno in comune.
Come scriveva Norberto Bobbio, cultura «significa anche cautela, circospezione, riserbo nel giudicare: vuol dire controllare tutte le testimonianze ed esaminare tutti gli argomenti prima di pronunciarsi e rinunciare a pronunciarsi piuttosto che farlo affrettatamente».[ref]N. Bobbio, Politica e cultura, Einaudi, Torino p. 25..[/ref]
Il dialogo aiuta a trovare obiettivi condivisi su cui costruire azioni mirate a stabilire una comprensione che porta a una pace duratura. Nella Proposta di pace 2015 Ikeda cita il defunto presidente indonesiano Abdurrahman Wahid (1940-2009), secondo il quale «il dialogo dona un volto umano a coloro che provengono da contesti etnici, culturali o storici diversi. Grazie a incontri costanti entriamo in armonia con i racconti della vita degli altri, e pur riconoscendo e apprezzando la grande importanza di caratteristiche come la religione o l’appartenenza etnica, non permettiamo che esse diventino gli unici oggetti del nostro scambio. Il sentire comune e la fiducia alimentati da tali incontri generano melodie peculiari che possono essere armonizzate solo da quelle due esistenze».[ref]D. Ikeda, Proposta di pace 2015, BS, 170, 22. [/ref]
Perché il dialogo sia possibile è necessario non lasciarsi intrappolare nelle situazioni e trasformarle, ricordando che tutti noi esseri umani siamo interconnessi;[ref]D. Ikeda, Proposta di pace 2017, BS, 182, 19.[/ref] ciascuno e ciascuna di noi può fare qualcosa per arricchire la rete delle proprie relazioni nell’ambiente immediato ma anche per affrontare il mondo senza perdere la speranza. A tale proposito Ikeda cita la filosofa Hannah Arendt quando parla della necessità di «aggiungere il nostro filo in una rete di relazioni».[ref]Archivio Arendt 1930-1940, a c. di Simona Forti, Feltrinelli, Milano, 2001, p. 59; citato in BS, 182, 19.[/ref] Da una prospettiva buddista, quando abbiamo il coraggio di prendere l’iniziativa stiamo già cambiando, e così influiamo sull’ambiente per trasformarlo. Il coraggio è necessario perché ci costringe a muoverci nella sfera pubblica, poiché, come scrive ancora Arendt, «l’umanità non si raggiunge mai in solitudine».[ref]Ibidem.[/ref] 

Il ruolo dell'educazione nell’allenare al dialogo

Esercitarsi nella fiducia richiede un tempo e uno spazio, e questi vanno creati con cura e attenzione nei riguardi delle persone con cui si avvia un dialogo volto a promuovere un cambiamento in direzione della pace. Per esempio l’arrivo di un gran numero di immigrati, che suscita paure e genera conflitti, rende urgente l’integrazione di chi si ferma. Molte organizzazioni di volontariato intervengono in vari modi a sostegno dell’inclusione; in particolare l’educazione aiuta gli immigrati a inserirsi nelle nostre società offrendo un futuro migliore ai più giovani di loro che, oltre a dare un contributo alla nostra società, sostengono chi rimane a casa.
L’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati (Unhcr) ha affrontato la questione costituendo la rete di collaborazione dei “corridoi universitari” per facilitare l’inserimento degli studenti dei campi profughi nelle università italiane. Hanno aderito all’iniziativa prima due atenei (quello di Bologna e la Luiss) poi altre decine di università italiane, e ora anche quelle europee. Il lavoro di coordinamento amministrativo è complesso e la ricerca di sponsor e partner è impegnativa, ma tutti hanno un ruolo. Quando è venuto il mio turno, da docente, ho pensato a come stabilire dialoghi tra gli studenti stranieri e quelli italiani per aiutarli a superare il muro dei pregiudizi e della diffidenza. Io insegno Arabo, e siccome gli studenti del primo gruppo parlavano arabo e dovevano esercitarsi in italiano, abbiamo creato all’interno del corso momenti di dialogo che abbiamo chiamato “Tea for Two”. Si prendeva un tè insieme (anche virtuale) e si discuteva usando un vocabolario minimo di parole studiate in classe su temi di volta in volta diversi: dal cibo allo sport preferito, ai film e alla musica. I dialoghi, avviati in presenza, sono proseguiti online acquisendo la possibilità di mostrare i trailer dei film preferiti e di ascoltare insieme le demo di brani musicali. I giovani, che con qualche riluttanza avevano dovuto aderire all’iniziativa, si sono trovati felici di scoprire tante passioni in comune. Un uso costruttivo della cultura globale e dei nuovi media ha evidenziato molti valori condivisi: l’amore, la voglia di sfidarsi, la speranza. I giovani hanno stabilito un dialogo semplice, spontaneo e sincero, in uno spazio neutro creato appositamente, per superare i pregiudizi e creare quella fiducia reciproca necessaria per collaborare nello studio e nella società ora, e nel lavoro domani.

Francesca Maria Corrao, docente di Lingua e cultura araba presso l'Università Luiss Guido Carli di Roma

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Incontrarsi su ponti di parole

Anche se il diritto pare vivere di sanzioni e tribunali, in primo luogo stabilisce diritti, doveri e facoltà basati sulla responsabilità personale. Nella relazione giuridica ci si promettono comportamenti conseguenti e ci si aspetta ciò che si è promesso. È innanzitutto un affidamento reciproco

La fiducia non se la passa tanto bene nel mondo contemporaneo, almeno apparentemente. Si ripete continuamente da parte di tutti – e non solo sui social network, che hanno da questo punto di vista soltanto l’effetto di potenziare le convinzioni diffuse – che bisogna fidarsi poco degli altri. Insomma, «fidarsi è bene, non fidarsi è meglio», come recita il noto proverbio. La fiducia se la passa decisamente peggio quando si entra nelle cose giuridiche: qui, anzi, essa sembra essere bandita ab initio, dal momento che ci rivolgiamo al diritto soprattutto nelle occasioni in cui vogliamo tutelarci dagli altri, o aprire con gli altri un conflitto di qualche genere. E infatti, quando pensiamo al diritto ci vengono in mente avvocati, poliziotti e tribunali.
Il nostro modo di rapportarci a esso è popolato da sentimenti “negativi” e dissociativi: diffidenza, paura, sfiducia. Concepiamo le regole giuridiche esclusivamente come una difesa dagli altri e come uno strumento per costringerli a far ciò che non vorrebbero fare. Ne abbiamo avuto la prova anche nei tempi più recenti, quando – nonostante la generale e tutto sommato soddisfacente adesione dei cittadini alle prescrizioni giuridiche e tecnico-sanitarie intese al contenimento della diffusione del Coronavirus – ci è piaciuto pensare che, se la gente ubbidiva alle regole, era sostanzialmente per la paura del virus e delle punizioni che sarebbero state inflitte in caso di disubbidienza. Non a caso, anche illustri giuristi si sono lamentati del fatto che molte delle regole erano imprecise, e soprattutto non erano accompagnate dalla sempre necessaria (minaccia della) sanzione.
Insomma, ci pensiamo – e soprattutto, pensiamo gli altri – sempre come potenziali criminali, in ossequio a una lunga tradizione che risale a Machiavelli, il quale aveva scritto nei Discorsi che, quando si fanno regole e leggi, bisogna considerare gli esseri umani come se fossero «rei, e che abbiano sempre a usare la malignità dello animo loro, qualunque volta ne abbiano libera occasione». Una tradizione che ha una lunga storia e che arriva fino a noi: non a caso la nostra amministrazione è tutta incentrata su quello che possiamo chiamare appunto "machiavellismo giuridico".
Si tratta di capire però se questo modo di leggere la realtà delle nostre relazioni non sia fuorviante e non ci dia un’immagine sbagliata di noi stessi, delle nostre responsabilità, dei nostri rapporti sociali. Perché se è vero che il diritto vive anche di sanzioni, poliziotti e tribunali, è anche (e soprattutto) vero che, prima che si ricorra a questi strumenti, il diritto stabilisce diritti, doveri, facoltà e posizioni che sono affidate alla responsabilità di ciascuno. Quando stabiliamo con qualcuno una relazione giuridica, ad esempio stipulando un contratto, non facciamo altro che prometterci comportamenti conseguenti, e attenderci quindi dagli altri che facciano ciò che essi hanno promesso. C’è innanzi tutto una relazione di fiducia che si stabilisce tramite il diritto – un momento di affidamento reciproco, che possiamo definire "orizzontale" – ed è solo in conseguenza del fallimento di questa relazione che il secondo momento, quello sanzionatorio e "verticale", è chiamato a intervenire.
Per quanto possa sembrare strano, dunque, il diritto ci chiede innanzi tutto di fidarci gli uni degli altri, nel momento in cui stabilisce i diritti e i doveri di ciascuno. Ciò significa che le nostre relazioni giuridiche – e possiamo dire, il funzionamento del diritto in generale – dipendono dalle nostre scelte e dalla nostra responsabilità. Non c’è nulla di automatico, nel diritto: siamo sempre noi a compiere delle azioni e ci aspettiamo che gli altri facciano altrettanto. Cosa entra in gioco, nelle relazioni giuridicamente connotate, se non la fiducia e le aspettative che nutriamo gli uni nei confronti degli altri? In certi casi, il diritto sta tutto nella realizzazione di queste aspettative e di fatto scompare quando arriviamo al momento “verticale”. Pensiamo al diritto all’istruzione o al diritto alla salute: non è dalla responsabilità dei docenti e degli studenti, nel primo caso, e del personale sanitario nel secondo caso, che la loro realizzazione discende? Si tratta di constatare, quindi, non solo che le persone sono chiamate a svolgere i loro doveri (giuridici) dovendosi prendere cura di coloro ai quali si rivolgono, ma anche di prendere atto (con sollievo) che questi doveri sono compiuti generalmente con puntualità e dedizione.
È chiaro che è per tutti più comodo pensare agli altri (e a noi stessi) come se incarnassimo sempre e comunque la parte cattiva del Visconte dimezzato.[ref]Protagonista dell'omonimo romanzo di Italo Calvino.[/ref] E tuttavia, riscoprire che c’è un momento fiduciario che abita il diritto non solo ci aiuta a ritrovare la solidarietà che è implicita nell’ordine giuridico, ma ci impegna a dare spazio alle qualità migliori di cui siamo in possesso. Rovesciando il noto proverbio, si potrebbe dire – con una battuta che devo all’amico e collega Pierluigi Consorti – «fidarsi è bene, non fidarsi è peggio!». 

Tommaso Greco, docente di Filosofia del diritto presso l'Università di Pisa

Fidarsi è bene, non fidarsi è peggio

È un movimento in due direzioni: apertura verso fuori e verso di sé. Due momenti che all’interno della visione buddista si rispecchiano e si rafforzano reciprocamente, trovando così la loro piena dimensione etica ed esistenziale

Fra i molti sensi possibili della parola “fiducia”, e della sua figura concettuale, emerge quello di “apertura”: nei termini del Buddismo di Nichiren, myo.[ref]«Quanto al carattere myo (mistico o meraviglioso) il Sutra del Loto dice: “Questo sutra spalanca la porta degli espedienti e mostra la forma della vera realtà”. Il Gran Maestro Chang-an così commenta questa frase: “Si chiama myo perché rivela l’interno del deposito segreto”. E il Gran Maestro Miao-lo afferma a questo proposito: “Rivelare significa aprire”. Perciò il carattere myo significa aprire» (Il Daimoku del Sutra del Loto, RSND, 1, 127).[/ref] Non c’è fiducia senza apertura di sé, e cioè senza disposizione a ricevere e accogliere. L’idea di apertura sta quindi nella fiducia e ne segna lo spazio semantico. Ma, in realtà, va ancora oltre: le dà un’ampiezza e una profondità inaspettate. Fiducia-apertura supera infatti il piano morale, emotivo, politico, pratico, ecc. e mostra una qualità ben più alta, di tipo antropologico ed evoluzionistico.
Un documento della fine del secolo scorso, la “Dichiarazione di Siviglia sulla violenza” – frutto dell’incontro d’esperti in varie discipline – afferma che fra gli animali sociali esiste un istinto solidale-collaborativo opposto alle forze dissolutive e fonte di coesistenza di gruppo e specie.[ref]Cfr. Dichiarazione di Siviglia sulla violenza, a cura di D. Adams, tr. it. di C. Pagani, Unesco, Paris, 1991, pp. 3-4.[/ref] Ciò vale a maggior ragione per il genere umano, sociale e dotato di coscienza: pur se nei tempi ha agito assai più all’interno dei gruppi che nei loro rapporti. E naturalmente, un istinto del genere comporta fiducia e apertura, senza cui nessuna condivisione è possibile: la mera forza può anche tenere uniti, ma solo per poco. In tal modo, la fiducia-apertura assume un valore davvero fondante e universale; appare, oltre ogni altro aspetto, base e motore dello stesso globale sviluppo umano; senza di essa non ci sarebbero state né la nostra specie né la civiltà. Non a caso, myo è posto all’inizio del grande Daimoku del Sutra del Loto, Myoho-renge-kyo, espressione sintetica della Legge mistica che regge il mondo e al suo interno l’umanità.[ref]Cfr. D. Ikeda, Il mondo del Gosho, 1, tr. it. di M. Cellerino, Esperia, Milano 2003, p. 302.[/ref]
Intesa come apertura, la fiducia ha due direzioni distinte. Il Buddismo di Nichiren, nei suoi aspetti teorico e pratico, ne mostra appieno i sensi.

Verso l’esterno

Fiducia qui è aprirsi al mondo. Vedere nel mondo il grande scenario che si dispiega e ove stiamo da attori e non solo da osservatori; quanto appare ai sensi e anche un mistero che sfugge e i cui termini sono insondabili. Uscire con ciò da un piccolo Io ed espandere un Io che tutto accoglie e avalla, dal minimo al massimo delle grandezze. Verso il campo umano, per una globale condivisione che supera le differenze e afferma una fratellanza d’uguali ormai non più negabile. Verso la vita, a cui s’appartiene con le altre specie ma in qualità di coscienze che ci distinguono e danno valori quanto responsabilità: segno creativo e morale fonte d’irredimibile impegno. E verso l’inanimato, il quale a suo modo vive e offre allo sguardo un altrove contiguo e rispecchiante. Aprirsi a tutto ciò è un atto d’intensa e profonda fiducia nel reale, nel vivere e nel nostro stare al mondo.
Naturalmente, il campo umano è complesso e ha varie linee. L’incontro d’uguali chiede rispetto per le alterità che ci sono e vanno accolte; un forte e plurale umanesimo sta quindi a guida e norma dei rapporti. Su tale strada lo scambio è peculiarmente dialogico, nel senso di un avanzamento comune mediante l’ascolto reciproco e l’integrazione di parti: con apertura al ruolo d’ognuno e ai possibili esiti. Ciò però su un piano non solo pratico e intellettuale: anche altre figure hanno spazio, emozionali e spirituali. La spinta viene dal cuore, affronta il male del vivere e cerca rimedi; vuol essere quindi foriera di pace e felicità, quanto all’umana specie sia possibile. Da qui la grande funzione della compassione; l’azione virtuosa come impegno anche sociale e relazionale; la convinzione che quanto sopra abbia un potenziale espansivo inarrestabile.[ref]Cfr. D. Ikeda, in D. Ikeda, M. Tehranian, Civiltà globale. Un dialogo tra Islam e Buddismo, tr. it. di G. M. Giughese, Sperling &amp; Kupfer, Milano, 2004, p. 217.[/ref] Di tutto questo è colma la fiduciosa apertura buddista della persona verso la persona. E fatalmente ciò supera i limiti e va oltre l’umano, in una tensione universalizzante il cui ultimo fine è un cambiamento globale del mondo: la trasformazione di esso da oscura terra desolata a pura e lucente terra del Budda.[ref]Cfr. D. Ikeda, Il mondo del Gosho, 2, tr. it. di M. Cellerino, Esperia, Milano 2004, pp. 28, 69.[/ref]

Verso l’interno

Fiducia qui è aprirsi a sé: guardarsi dentro e scoprire un cosmo inaspettato. L’essere umano apprende che la sua vita interiore passa per stati diversi e onnipresenti – i dieci mondi e il loro mutuo possesso –: costante vibrare energetico dal potenziale al reale. Scopre così la propria natura di Budda e la facoltà d’attuarla qui e ora, poiché quanto ostacola – il karma – dipende da lui e quindi può essere sempre cambiato. Ciò gli rivela che, essendo la Buddità cuore del reale, ogni attimo della sua vita riflette l’intero universo – i tremila regni in un unico istante –, vero microcosmo del macrocosmo vivente. Tale visione l’attiva – empowerment – e gli consegna un compito chiave: fare del vivere un grande percorso di formazione al valore e di sua creazione – la rivoluzione umana. Un intenso personalismo[ref]Il personalismo è una corrente di pensiero incentrata sull’esistenza di persone libere e creatrici. Alla sua base c’è la centralità della persona come valore assoluto. «Ogni persona ha un significato tale da non poter essere sostituita nel posto che essa occupa nell’universo delle persone. Tale è la maestosa grandezza della persona che le conferisce la dignità di un universo; e tuttavia la sua piccolezza, in quanto ogni persona è equivalente in questa dignità, e le persone sono più numerose delle stelle» (Emmanuel Mounier, Il Personalismo, AVE, Roma, 1964, p. 81), n.d.r.[/ref] quindi consegue alla fiduciosa apertura a sé ed eleva la qualità del soggetto. E questo a sua volta ricade sull’altro versante, quello volto all’esterno.
Così, i due piani della fiducia-apertura si legano e si sostengono, ognuno nel suo; scena integrata che esprime e conferma quanto alla fine è il segno più vero e profondo del reale: un’unità grandiosa e fantasmagorica ove tutto converge, s’assimila e interagisce; la meravigliosa rete di Indra, globale ed essenziale natura dell’essere.[ref]«Il canone buddista ci presenta una bella parabola […] mostrando come tutti i fenomeni dell’universo interagiscano determinando un’armonia perfetta: “Sospesa sopra la reggia del dio Indra, simbolo delle forze naturali che nutrono e proteggono la vita, vi è una vastissima rete. A ognuno dei suoi nodi è legato un gioiello. Ogni gioiello riflette in sé l’immagine di tutti gli altri, rendendo la rete meravigliosamente luminosa”» (D. Ikeda, "Nuovi orizzonti di una civiltà globale", Proposta di pace 1997, in D. Ikeda, La pace attraverso il dialogo, vol. 2, tr. it. di M. Zanda, Esperia, Milano 2002, p. 370).[/ref]

Franco Bonsignori, docente di Filosofia del diritto presso l'Università di Pisa

Non c'è fiducia senza apertura di sé

Dare fiducia è un progetto di cui ci si assume la piena responsabilità. Un investimento cosciente, impegnativo, da coltivare. La fiducia è creativa, apre la vita, genera speranza, legami, coesione. È il terreno per lo sviluppo umano, il tessuto invisibile di una società sana.

La strada della fiducia

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