Dal verbo inglese to em-power, indica il processo psicologico per divenire coscienti del proprio potere individuale e per aiutare gli altri ad acquisire la stessa consapevolezza.

io posso
tu puoi
lei può
lui può
noi possiamo
voi potete
tutte e tutti possono

&nbsp;

Empowerment

Empowerment

Da tremila anni il Buddismo si fonda sul concetto di empowerment

di Maria Lucia De Luca

Da tremila anni il Buddismo si fonda sul concetto di empowerment – il processo tramite il quale si diventa coscienti delle proprie potenzialità – esplorando i mezzi e le diverse pratiche attraverso le quali tutte le persone possono manifestare l’immensa energia, dignità e saggezza dello stato vitale della Buddità

Decidere di farcela. O almeno provarci, a rialzare la testa. A non subire una sconfitta, a realizzare un sogno, a risolvere un problema. Scegliere di sentirsi “grandi”, potenti e liberi, e agire di conseguenza.
Empowerment è il termine inglese – intraducibile in italiano con una sola parola – che indica l’acquisizione della consapevolezza del proprio potere.
È un processo individuale e sociale per mezzo del quale le persone, a partire da situazioni di svantaggio reale o percepito come tale, possono rafforzare la propria capacità di scelta e di autodeterminazione sviluppando la percezione del proprio valore.
Il concetto di empowerment, scrive lo psicologo Agostino Di Masi a p. 18, «è stato usato per la prima volta dagli psicologi statunitensi negli anni Sessanta-Settanta per indicare […] interventi psicologici volti al recupero di persone affette da disturbi psicologici e che vivevano in situazioni di forte disagio».
Nel corso del tempo il processo di empowerment è stato utilizzato in vari ambiti sociali, dai gruppi di auto aiuto alle organizzazioni del lavoro. Fino ad avere oggi un ruolo cruciale nelle modalità di sostegno alle comunità dei paesi più poveri e nella lotta per una “globalizzazione a misura umana”. Nel report della Commissione per la sicurezza umana presentato a Kofi Annan lo scorso maggio c’è scritto: «Le persone coscienti del loro “potere” (empowered) possono chiedere rispetto per la loro dignità, quando viene violata. Possono creare nuove opportunità di lavoro e risolvere molti problemi localmente. Sostenere la capacità delle persone di agire per il proprio interesse significa fornire educazione e informazione affinché esse possano valutare i problemi sociali e intraprendere azioni collettive. Significa costruire uno spazio pubblico che coltivi la pubblica discussione e incoraggi la leadership locale. […] Per quanto riguarda le attività della sicurezza umana, non dovremmo più chiederci cosa possiamo fare, ma quanto questa attività sia basata sugli sforzi e le capacità dei diretti interessati (Protection and empowerment, dal Report della Commissione per la sicurezza umana).
Da tremila anni il Buddismo si fonda sul concetto di empowerment. «Il risveglio di Shakyamuni – scrive Yoichi Kawada dell’Istituto di Filosofia Orientale di Tokyo a p. 22 – ebbe inizio con la percezione del proprio inconscio e si estese fino a illuminare il vasto cosmo della psiche. Tale esplorazione […] arrivò a includere tutto il genere umano. Egli continuò a esplorare le frontiere dell’individualità, dall’essenza comune a tutti gli esseri viventi fino a quelle zone profonde dove il sé si fonde con la Terra, col sistema solare e con l’universo intero. Alla fine si risvegliò alla saggezza fondamentale della vita, la vita dell’universo stesso, che dà origine a tutti i fenomeni che si evolvono in armoniosa unità con il cosmo psichico.
I praticanti buddisti avrebbero chiamato “natura di Budda” la forza vitale alla quale Shakyamuni si era risvegliato. Avrebbero esplorato i mezzi e le diverse pratiche attraverso le quali tutte le persone possono manifestare l’immensa energia, dignità e saggezza di questo stato vitale: in altre parole, metodi di self-empowerment».
Centrale, nella psicologia buddista, è l’idea di trasformazione della coscienza: dalla percezione di un io isolato, profondamente insicuro, un io “impotente” o “prepotente” che oscilla fra un senso di superiorità e di inferiorità nei confronti degli altri e dell’ambiente, all’acquisizione della saggezza in grado di percepire che siamo tutti interrelati e interdipendenti, con il “potere” di decidere della nostra esistenza e di influenzare la realtà. L’acquisizione di questa saggezza – la saggezza del Budda – è il processo di empowerment buddista.
«Io sono stato sempre dalla parte dei perdenti – testimonia Roberto Battelli, buddista della Soka Gakkai, a p. 29 – e con la pratica ho scoperto che i perdenti possono diventare vincenti».
Il comportamento del Budda è quindi quello di vivere consapevolmente in maniera interattiva e interdipendente, un modo di vivere “contributivo” – come lo definisce Daisaku Ikeda. «Un’esistenza passiva e dipendente è in balia delle circostanze perché difetta di un chiaro e definito senso di sé. D’altra parte, con l’indipendenza si può manifestare la propria individualità a discapito, però, della consapevolezza della realtà e delle necessità degli altri. Al contrario, un modo di vivere “contributivo” si basa sulla consapevolezza della natura interdipendente delle nostre esistenze, delle relazioni che ci uniscono gli uni agli altri e al nostro ambiente. È un tipo di vita in cui ci impegniamo attivamente per realizzare la nostra e l’altrui felicità.
Questo modo di vivere è centrato sul concetto di empowerment, in particolare attraverso il dialogo che stimola l’immenso potenziale interiore, ispirando la gente a lavorare insieme per la pace e la felicità di tutta la comunità globale» (Buddismo e società, n. 94, p. 11).

Il potere di creare la pace
Il tema dell’empowerment è centrale in un recentissimo libro di dialoghi tra David Krieger, presidente della Fondazione per la pace nell’era nucleare, e Daisaku Ikeda. Il senso del titolo, Scegli la speranza (Choose Hope, Middleway Press, Santamonica, Ca, 2002, ancora non tradotto in italiano), è racchiuso in questa breve affermazione di Krieger, tratta dalla prefazione: «Io scelgo la speranza. È una scelta cosciente, fatta con la piena consapevezza che il male che ci circonda è tale da avvolgerci e sopraffarci. Io scelgo la speranza perché sento una profonda responsabilità per quello che penso di essere obbligato a fare: lasciare il mondo migliore di come l’ho trovato. Ciò dà significato alla mia vita. Combattere per un mondo migliore è un modo per vivere la vita al massimo della sua pienezza e ricchezza. Io scelgo la speranza come una responsabilità personale e professionale» (p. xvi).
Rendere consapevoli le persone del loro potere di cambiare il mondo è il filo conduttore del libro. Figura emblematica di questo processo per entrambi gli autori è il mahatma Gandhi:
«Ikeda: Storicamente, la riforma della società è stata realizzata attraverso il potere della gente che ha lottato appassionatamente per realizzare promesse e obiettivi. Ma oggi, sfortunatamente, la società sembra profondamente impotente. Le persone sono convinte che l’individuo è privo del potere di cambiare la situazione. Confrontandosi con la realtà quotidiana le persone sensibili perdono la speranza e si chiudono nei loro piccoli mondi. Questo a me sembra il male principale dei nostri tempi» (p. 11).
«Krieger: Le possibilità contenute nel potere delle persone sono infinite, ma è necessaria l’educazione per riconoscerle. La maggior parte delle persone è presa nella lotta per la sopravvivenza o per aumentare i propri beni. Non molti comprendono realmente l’enorme potere delle loro vite, e ancor meno sfruttano questo potere. Gandhi rappresenta il potere presente in ognuno di noi. Egli lo sfruttò e visse con grande coraggio.
Ikeda: Come hanno dimostrato le sue azioni, ciò che una persona può fare lo possono fare tutti» (p. 167).

&nbsp;

Sapere di potere

Empowerment

di Agostino Di Masi, psicologo

Di Agostino Di Masi

Il verbo inglese em-power in psicologia ha il significato di dare a una persona la sensazione di avere il controllo su ciò che accade, per stimolarla a operare i cambiamenti necessari vincendo resistenze interiori ed esterne. Per divenire empowered,cioè per acquisire questo potere, occorre andare alla radice dei nostri desideri, sviluppando la capacità di immaginare le situazioni che vorremmo realizzare e agendo di conseguenza

Generalmente una difficoltà, un evento gravoso, può suscitare diversi stati d’animo prevalentemente di natura negativa come ansia, inquietudine, paura, dolore. Tutto ciò ci può far entrare in crisi. L’etimologia della parola crisi deriva dal greco e significa decidere, giudicare; pertanto “crisi” significa opportunità per scegliere, vale a dire occasione per cambiare possibilmente in meglio. Questo compare anche nei due caratteri dell’ideogramma cinese che rappresenta il termine crisi, che significano uno “pericolo” e l’altro “opportunità”. Il concetto di crisi è strettamente collegato con un altro concetto che è quello di empowerment.
L’empowerment è un termine di origine inglese che deriva dal verbo em-power, tradotto in italiano col significato di dare potere o mettere in grado di agire. In altri termini significa dare a una persona, o a un gruppo, la sensazione di avere un controllo su quello che accade, per stimolarla a mettere in pratica i cambiamenti che ritiene necessari, vincendo ogni resistenza, interna ed esterna. Questo concetto è stato usato per la prima volta dagli psicologi statunitensi negli anni Sessanta-Settanta per indicare gli interventi psicologici all’interno di strutture socio-sanitarie. Tali interventi erano volti al recupero di persone affette da disturbi psicologici e che vivevano in situazioni precarie e di forte disagio.
Pertanto gli psicologi (clinici e di comunità) progettavano e realizzavano interventi di prevenzione primaria (volta a ridurre l’incidenza di un disturbo) e secondaria (previsione dei disturbi per fornire trattamenti efficaci). Ben presto gli psicologi tentarono di superare i confini dell’igiene mentale per orientare il loro interesse di studio e di applicazione in altri contesti sociali; per questo motivo avviarono gruppi di auto aiuto nei quartieri più malfamati delle città per aiutare le famiglie disagiate, per sostenere le minoranze etniche nel migliorare le loro condizioni di vita, per ridurre i fenomeni di razzismo e favorire la valorizzazione del pluralismo.
Iniziarono dunque a interessarsi delle comunità (intese come rete di relazioni tra gli individui di uno stesso sistema sociale) in senso più ampio, con l’obiettivo di creare comunità sane che avrebbero dovuto sviluppare e sostenere persone sane.
Parallelamente gli psicologi applicavano i principi dell’empowerment anche in ambito scolastico, attraverso programmi di intervento per ridurre il disagio giovanile in età scolare, con il contributo delle istituzioni, degli insegnanti e dei genitori, e per affrontare la dispersione scolastica. Si iniziava negli anni Settanta a discutere su possibili soluzioni per sostenere l’inserimento nelle scuole e negli ambienti di lavoro dei disabili fisici e psicologici. Gli strumenti più diffusi erano prevalentemente gruppi di lavoro attraverso i quali veicolare la condivisione delle idee, dei pensieri, dei sentimenti, delle emozioni affrontando diverse tematiche e in ogni caso partendo da concrete esigenze/bisogni delle persone fino ad arrivare a discutere e ad affrontare tematiche ambientali quali l’educazione alla salute, la pace, la tutela dell’ambiente.
L’assunto di base di tale approccio era che il confronto facilitasse la comprensione e aiutasse le persone a individuare la soluzione migliore per affrontare le difficoltà. Dobbiamo arrivare agli inizi degli anni Ottanta per trovare le prime sistematiche definizioni del concetto di empowerment. Da ricerche condotte in quegli anni si notava che la partecipazione attiva a organizzazioni e associazioni facilitava la consapevolezza e aumentava l’auto-percezione di competenza, in altri termini il confronto e la discussione con gli altri incoraggiava l’attivazione di comportamenti e azioni altrimenti sconosciuti. Generalmente oggi gli esperti del settore concordano sul fatto che l’empowerment è un processo individuale e organizzativo (che cioè coinvolge tutti i sistemi con una struttura e regole come la società e gli ambienti di lavoro) per mezzo del quale le persone, a partire da situazioni di svantaggio reale o percepito come tale, possono rafforzare la propria capacità di scelta, di autodeterminazione, sviluppando un sentimento legato alla percezione del proprio valore. Scoprono di avere controllo sulle situazioni favorendo lo sviluppo della propria autostima, del senso di autoefficacia, riducendo in tal modo i sentimenti di impotenza, sfiducia, paura, ansietà e alienazione.
In seguito a numerosi studi e ricerche svolte in molti paesi, negli ultimi anni sono state sviluppate alcune strategie per favorire la formazione di gruppi che operino in modo efficace e integrato, in un clima che permetta la valorizzazione di ogni componente del gruppo, sviluppando il senso di appartenenza oltre che di condivisione degli obiettivi (attraverso la partecipazione alle implicazioni emotive, il confronto delle opinioni, l’ascolto e la comunicazione, l’aiuto reciproco) con la possibilità di attivarsi per raggiungerli. Sul finire degli anni Ottanta gli psicologi si rendono sempre più conto che il benessere delle persone dipende anche dalle condizioni in cui lavorano, e quindi che anche le aziende possono diventare luoghi in cui è opportuno promuovere la salute psicofisica, così come accadeva nella scuola, nella famiglia, nei servizi. L’attenzione alla prevenzione e l’interesse per le persone più deboli porta gli psicologi a interessarsi di tematiche quali le conseguenze psicologiche della disoccupazione, la prevenzione di malattie e incidenti sul lavoro, la disoccupazione e le malattie mentali, l’inserimento e l’uscita dal mondo del lavoro. Stiamo assistendo a importanti cambiamenti.
La vecchia organizzazione tayloristica (lavoro a catena di montaggio) non è più adatta a rispondere al mutato contesto socio-economico mondiale. È in crisi anche il modello fordiano che prevedeva la fabbricazione in massa dei prodotti. In questo scenario, negli anni Novanta, si avvia il processo di empowerment all’interno delle organizzazioni. Oggi questo sembra essere uno dei pochi strumenti in grado di produrre cambiamenti organizzativi e personali per mezzo dell’ottimizzazione delle risorse disponibili in grado di fornire delle risposte adeguate. Le persone diventano importanti non solo come consumatori sempre più esigenti, ma anche come lavoratori. Questo impone alle aziende maggiore valorizzazione e coinvolgimento delle risorse umane. Alle persone nelle aziende è richiesto di essere più creative, flessibili, di cooperare, di assumersi maggiori responsabilità individuali. Le organizzazioni diventano sempre più snelle con meno livelli gerarchici. Per raggiungere gli obiettivi hanno bisogno di personale molto preparato, con continui corsi di formazione/aggiornamento, e con la necessità di avere persone coinvolte emotivamente.
In conclusione, per parafrasare un’affermazione di Massimo Bruscaglioni (docente di Psicologia della Formazione, Università di Padova), per avviare il processo di empowerment e di sviluppo delle persone bisogna andare alla radice dei nostri desideri, che sono gli indicatori primari delle nostre potenzialità addormentate, nascoste o dimenticate. Pertanto per divenire empowered occorre sviluppare la capacità di immaginare le situazioni che vorremmo realizzare e di ripensare alla realtà che viviamo.

BIBLIOGRAFIA:
Francescato D. con Putton A. (1995), Stare meglio insieme, Arnoldo Mondadori Editore, Milano
Francescato D., Ghirelli D. (1988), Fondamenti di psicologia di comunità, La Nuova Italia Scientifica, Roma
Francescato D., Leone L., Traversi M.(1995), Oltre la psicoterapia, La Nuova Italia Scientifica, Roma

&nbsp;

Una parte da protagonista

Empowerment

Cenni sulla teoria psicologica di Abraham Maslow

di Lodovico Prola

Secondo lo psicologo americano Abraham Maslow il comportamento umano è diretto e motivato, al di là delle particolari differenze culturali, dai bisogni fondamentali comuni a tutti gli esseri umani. Questi sono classificati in una relazione gerarchica – la famosa scala di Maslow – al cui apice c’è il bisogno di autorealizzazione, definito dallo psicologo come l’esigenza di ogni individuo di «diventare ciò che si è capaci di diventare» e di «attuare le proprie migliori potenzialità» 

Era il 1954 quando Motivazione e personalità, di Abraham H. Maslow, uscì in libreria. L’autore in questo libro provava a formulare un nuovo approccio della psicologia che tentava di aggiungere qualcosa di veramente nuovo e importante a quanto le psicologie del tempo dicevano sulla natura umana: l’essere umano possiede un enorme potenziale positivo, una natura nobile ed elevata. Questa è istintuale ed è parte della sua essenza.

I bisogni fondamentali
Secondo Maslow il comportamento umano è diretto e motivato, al di là delle particolari differenze culturali, dai bisogni fondamentali comuni a tutti gli esseri umani. Tra di essi i bisogni fisiologici sono i più prepotenti di tutti. Se i bisogni fisiologici risultano insoddisfatti tutti gli altri, quelli più alti e nobili, possono essere annullati e respinti nell’ombra. Tutta la mente e l’organismo intero diventano uno strumento al servizio dell’unico scopo, ad esempio, di sfamarsi. La libertà, l’amore, il rispetto, la filosofia sono tutte cose che possono essere messe da parte come sciocchezze inutili perché non riempiono lo stomaco.
Cosa avviene però quando il nostro ventre è cronicamente pieno? «Avviene che subito compaiono altri (e più alti) bisogni e sono questi a dominare l’organismo invece della fame fisiologica. Quando questi, a loro volta, sono soddisfatti, di nuovo nascono altri (ancora più alti) bisogni, e così via. È questo che intendiamo quando diciamo che i bisogni umani fondamentali sono organizzati in una gerarchia di preferenza relativa. Una conseguenza di ciò è che la gratificazione diventa nella teoria della motivazione un concetto importante […] perché libera l’organismo dal dominio di un bisogno relativamente più fisiologico e permette l’emergenza di altri fini più sociali» (Motivazione e personalità, p. 87).
Quando i bisogni fisiologici sono stati gratificati emerge una nuova serie di bisogni che possiamo categorizzare come bisogni di sicurezza: stabilità, protezione, libertà dalla paura, dall’ansia, dal caos, bisogno di ordine, di un forte protettore... Tutto ciò che vale per i bisogni fisiologici vale anche per questi desideri, sebbene in grado minore. L’organismo può essere dominato interamente anche da essi. Possono funzionare da organizzatori quasi esclusivi del comportamento, mettendo al loro servizio tutte le capacità dell’organismo e noi possiamo ben descrivere l’intero organismo come un meccanismo di ricerca della sicurezza.
Se i bisogni fisiologici e quelli di sicurezza sono abbastanza soddisfatti emergono i bisogni di affetto, di amore e di appartenenza e tutto il ciclo già descritto si ripete all’interno di questo nuovo centro. «Adesso la persona sentirà acutamente, come prima non avveniva, l’assenza di amici, di un amante, di una moglie o dei figli. Essa desidera relazioni di affetto con persone in generale, cioè desidera un posto nel suo gruppo o nella sua famiglia e cerca intensamente di realizzare questo scopo. Essa cerca di raggiungere un tal posto più di qualsiasi altra cosa e può anche dimenticarsi di quando era affamata e disprezzava l’amore come qualcosa di irreale, di non necessario o di non importante. Adesso sente acutamente il dolore della solitudine, dell’ostracismo, della reiezione, dell’assenza di amici o della spietatezza» (op. cit., p. 95).
Tutte le persone della nostra società (salvo poche eccezioni patologiche) sentono il bisogno e il desiderio di una valutazione di se stessi o autostima e contemporaneamente desiderano la stima degli altri. Da una parte vogliamo essere persone di successo, desideriamo sentirci forti, competenti e adeguati per affrontare con fiducia il mondo; dall’altra abbiamo bisogno di reputazione o prestigio, di una posizione sociale, di fama e di gloria, di dominio, di importanza, dignità e apprezzamento. Questi bisogni, ancora più alti dei precedenti, vengono da Maslow categorizzati nel cosiddetto bisogno di stima.
Ma anche quando tutte queste esigenze vengono soddisfatte possiamo aspettarci un nuovo stato di scontentezza e irrequietezza «se – per usare le parole di Maslow – l’individuo non sarà occupato a fare ciò che egli, individualmente, è adatto a fare. Un musico deve fare musica, un pittore deve dipingere, un poeta deve scrivere, per poter essere definitivamente in pace con se stesso. Ciò che uno può essere, deve esserlo. Egli deve essere come la sua natura lo vuole. Questo è il bisogno che possiamo chiamare di autorealizzazione» (op. cit., p. 99).
È il bisogno di ogni individuo di attualizzare ciò che è potenziale, diventare ciò che si è capaci di diventare, attuare le proprie migliori potenzialità.

Carattere e gratificazione
Maslow tende a collegare la gratificazione dei bisogni con lo sviluppo di alcuni, forse molti, tratti caratteriali. Molti aspetti caratteristici dell’adulto sano, secondo l’autore, come la capacità di amare, di concedere indipendenza alla persona amata, sono infatti conseguenze positive della gratificazione infantile del bisogno di amore. Allo stesso modo la mancanza di ansietà, di nervosismo, l’esser rilassato, l’aver fiducia nel futuro sono effetti della gratificazione del bisogno di sicurezza.
«Questo vale anche per gli altri bisogni emozionali fondamentali, per il bisogno di appartenenza, di amore, di rispetto e autostima. La gratificazione di questi bisogni permette la comparsa di caratteri come l’affettuosità, l’autorispetto, l’autofiducia, la sicurezza... Un po’ lontani da queste conseguenze immediatamente caratteriologiche della gratificazione dei bisogni sono i tratti della gentilezza, della generosità, dell’altruismo, della magnanimità, dell’equanimità, della serenità, della felicità, della contentezza, e così via. Queste cose sembrano essere conseguenze di conseguenze, sottoprodotti di una generale gratificazione dei bisogni…» (op. cit., p. 129).
In generale sembrerebbe che il grado di gratificazione dei bisogni fondamentali sia positivamente correlato col grado di sanità psicologica dell’individuo, anche se Maslow è il primo ad ammettere l’esistenza di altre vie per raggiungere tale sanità.
Particolarmente interessante è l’analisi comparata delle persone che si autorealizzano. Attraverso l’analisi accurata di un gruppo di soggetti, Maslow evidenziò le caratteristiche comuni dei soggetti dotati di sanità psicologica. Egli scelse un gruppo estremamente eterogeneo di persone in possesso «di un uso e di un’utilizzazione piena dei propri talenti, delle proprie capacità e delle proprie potenzialità». «Tutti i soggetti erano individui che si sentivano sicuri, non avevano ansie, si sentivano accettati, amati, rispettati e degni di rispetto, ricchi di amore e impegnati nell’elaborazione di loro concezioni filosofiche, religiose o assiologiche» (op. cit., p. 249).
I soggetti furono scelti tra un folto gruppo di studenti universitari, tra conoscenti e figure pubbliche e storiche (ad esempio Albert Einstein, Eleanor Roosevelt, William James, Aldous Huxley, Benedetto Spinoza, Wolfgang Goethe, Martin Buber, Danilo Dolci, Ralph Waldo Emerson, Walt Whitman, ecc.).

Empowerment, autorealizzazione e ottenimento della Buddità
Per coloro che, come chi scrive, amano indugiare in parallelismi e paragoni, voglio suggerire alcune riflessioni.
L’autorealizzazione viene definita da Maslow come il bisogno di ogni individuo di «attualizzare ciò che è potenziale», «diventare ciò che si è capaci di diventare» e ancora «attuare le proprie migliori potenzialità». In termini buddisti il raggiungimento di questo obiettivo viene definito “manifestare il proprio vero io” (vero io è una delle principali caratteristiche, assieme a felicità, eternità e purezza, del mondo di Buddità). Ciascun essere umano, quando ottiene la Buddità, fa risplendere le proprie peculiarità. Proprio come piante di specie diverse, ognuno fiorisce secondo la propria natura: «I fiori del ciliegio, del pesco e del susino selvatico hanno ognuno le proprie qualità, e manifestano le tre proprietà della vita del Budda originale senza cambiare le loro caratteristiche» (Nichiren Daishonin, Ongi kuden, citato in La vera entità della vita, Esperia, 1996, p. 119).
Il desiderio di autorealizzazione, o se vogliamo di manifestare la Buddità, è tanto nell’indagine di Maslow quanto per la teoria buddista un bisogno fondamentale comune a tutta l’umanità. Anche se non tutti iniziano a praticare il Buddismo per questo nobile bisogno, chi continua lo fa perché motivato dall’esigenza di fiorire come essere umano, migliorare se stesso e attualizzare le sue potenzialità. Esigenza che nella vita del praticante diviene piano piano sempre più consapevole.
Continuando a leggere il saggio di Maslow con questo parallelismo nella mente facciamo altre significative scoperte. Le caratteristiche più importanti delle persone che si autorealizzano collimano in maniera sorprendente con le caratteristiche di coloro che manifestano il mondo della Buddità.
La prima caratteristica che evidenzia Maslow nel suo gruppo scelto di soggetti è la percezione più efficace della realtà e le relazioni più confortevoli con essa. Le persone che si autorealizzano hanno un senso di soddisfazione generale, manifestano inoltre una serena accettazione di sé, degli altri e della natura. Manifestano semplicità, spontaneità e naturalezza. Sono dotati di autocontrollo, hanno codici morali che sono relativamente autonomi e individuali piuttosto che convenzionali. «I soggetti che stiamo considerando non si sforzano più nel senso ordinario, ma si sviluppano. Essi cercano di crescere verso la perfezione e di svilupparsi in modo sempre più pieno secondo il loro stile. La motivazione delle persone ordinarie è uno sforzo verso la gratificazione dei bisogni fondamentali, dato che mancano di tale gratificazione. Ma le persone che si autorealizzano, di fatto, non mancano di queste gratificazioni, tuttavia hanno impulsi. Esse lavorano, cercano, sono ambiziose, ma in un senso non comune, perché la loro motivazione è lo sviluppo del carattere, è espressione del carattere, è maturazione, è sviluppo, in una parola è autorealizzazione» (op. cit., p. 261).
Le persone che si autorealizzano hanno capacità di fare valutazioni sempre nuove. «La creatività è una caratteristica che si trova in tutte le persone osservate o studiate, che si autorealizzano. Non c’è eccezione. Ciascuno di loro mostrava in un modo o in un altro uno speciale tipo di creatività, di originalità, di inventività che ha alcune caratteristiche peculiari. […] Da una parte questa creatività è ben diversa da quella dovuta a un talento speciale, come nel caso di Mozart. […] La creatività della persona che si realizza sembra piuttosto essere vicina alla creatività ingenua e universale dei bambini non viziati».
Nelle persone sane molti dualismi e dicotomie sono superati, le polarità scompaiono e molte opposizioni, ritenute fondamentali, sono sostituite da unità. Ad esempio le vecchie opposizioni tra cuore e mente, fra ragione e istinto scompaiono nelle persone autorealizzate. Non è possibile contrapporre egoismo e disinteresse perché per principio ogni atto è insieme egoistico e altruistico. Né si può opporre il dovere al piacere, né il lavoro al gioco quando il dovere è piacere e il lavoro è gioco.
Ultimo, ma non ultimo, le persone che si autorealizzano hanno un sentimento comunitario, «unica parola valida a ben descrivere la pienezza dei sentimenti di umanità espressi dai soggetti che si autorealizzano. Essi hanno verso gli esseri umani in generale un profondo sentimento di identificazione, di simpatia e di affetto, nonostante i momenti occasionali di ira, di impazienza o di disgusto… A causa di tale sentimento di comunione, essi hanno un genuino desiderio di aiutare la specie umana. È come se fossero membri di una sola grande famiglia… Le persone che si autorealizzano hanno relazioni interpersonali più profonde di ogni altro adulto. Esse sono capaci di maggiore fusione, di maggiore amore, di identificazione più perfetta, di una maggiore riduzione delle barriere dell’ego di quanto la ritengano possibile le altre persone… In un senso molto reale e molto speciale si può dire che amano o piuttosto compatiscono tutta l’umanità». (op. cit., pp. 271-272).

&nbsp;

La natura più profonda dell'umanità

Empowerment

direttore dell'Istituto di Filosofia orientale di Tokyo

di Yoichi Kawada, direttore dell'Istituto di Filosofia orientale di Tokyo

di Yoichi Kawada

Il processo di empowerment buddista è l’acquisizione della saggezza del Budda, contenuta nella nona coscienza, ossia la comprensione dell’interrelazione e dell’interdipendenza di tutti i fenomeni. Questa “illuminazione” opera una trasformazione di tutti gli altri livelli di coscienza dell’individuo e porta ad agire in maniera compassionevole nei confronti degli altri.

Questo testo è stato presentato il 26 agosto 1999 nel corso dell’American Psychological Association Convention di Boston, USA ed è stato pubblicato sulla rivista Living Buddhism del settembre 2001.

Nichiren, vissuto nel XIII secolo in Giappone, è il maestro buddista ai cui insegnamenti si ispirano le attività della Soka Gakkai Internazionale. In questo articolo vorrei esplorare le aree di contatto fra il Buddismo di Nichiren e il concetto di empowerment. 
Nichiren aveva una profonda conoscenza della storia intellettuale del Buddismo. Tale comprensione derivava dallo studio dei sutra che raccolgono gli insegnamenti di Shakyamuni e attingeva alle teorie e alle esegesi degli studiosi indiani Nagarjuna (fra il II e il III secolo d.C.) e Vasubandhu (V secolo d.C.), alla scuola cinese del Buddismo di T’ien-t’ai e a quella del giapponese Saicho (VIII secolo d.C.). Quindi, nel trattare l’empowerment, inizierò dall’esplorare i punti di contatto fra la psicologia occidentale moderna e la teoria delle “otto coscienze” elaborata da Nagarjuna e Vasubandhu, e poi ripresa e sviluppata da T’ien-t’ai e da Nichiren.
È stato lo storico Arnold Toynbee ad asserire che le due grandi scoperte del secolo scorso sono state la teoria della relatività nel campo della fisica e la scoperta dell’inconscio nel campo della psicologia. Egli ha inoltre sottolineato che la scoperta dell’inconscio ci rivela che ogni individuo racchiude in sé di fatto un cosmo, un universo.
Il merito della scoperta dell’inconscio nella psicologia occidentale va a Freud, i cui lavori sono stati seguiti da quelli di Adler, Jung, Maslow e altri, che hanno notevolmente ampliato il nostro campo di esplorazione della psiche.
Circa 2.500 anni fa in oriente, Shakyamuni – meglio conosciuto come il Budda – adattò creativamente e rimaneggiò l’antica filosofia delle Upanishad sviluppando una sua filosofia.
Il suo risveglio, avvenuto mentre si trovava in meditazione sotto l’albero di bodhi, può essere considerato un evento originario, un momento critico, nella psicologia orientale. Questo risveglio ebbe inizio con la percezione del proprio inconscio e si estese fino a illuminare il vasto cosmo della psiche.
Tale esplorazione del suo mondo interiore, del cosmo interiore, andò oltre il livello individuale e, approfondendosi, arrivò a includere tutto il genere umano. Egli continuò a esplorare le frontiere dell’individualità, dall’essenza comune a tutti gli esseri viventi fino a quelle zone profonde dove il sé si fonde con la Terra, col sistema solare e con l’universo intero. Alla fine si risvegliò alla saggezza fondamentale della vita, la vita dell’universo stesso, che dà origine a tutti i fenomeni che si evolvono in armoniosa unità con il cosmo psichico.
In seguito i praticanti buddisti avrebbero chiamato “natura di Budda” la forza vitale alla quale Shakyamuni si era risvegliato. Avrebbero esplorato i mezzi e le diverse pratiche attraverso le quali tutte le persone possono manifestare l’immensa energia, dignità e saggezza di questo stato vitale: in altre parole, metodi di self-empowerment.

I tre livelli della coscienza
Vorrei qui delineare brevemente il principio delle otto coscienze, che rappresenta un’importante base della psicologia buddista.
La parola che viene tradotta con “coscienza” deriva dal sanscrito vijñana, e sta a indicare una vasta gamma di attività che include la sensazione, la cognizione, il sentimento e il pensiero cosciente. Vijñana può essere pensato in riferimento all’intero cosmo della psiche.
Secondo gli insegnamenti della scuola Yogacara, vijñana comprende tre livelli: 1) i cinque sensi e la coscienza vigile; 2) la coscienza mano; 3) la coscienza alaya, considerata il nucleo centrale o luogo principale delle attività psichiche. In altre parole, il contenuto del livello di coscienza alaya si rende evidente, e quindi manifesto, nelle attività del livello della coscienza mano, così come nei cinque organi di senso e nella coscienza vigile. A loro volta, le attività dei livelli più superficiali vengono registrate profondamente nella coscienza alaya. Esiste dunque un’interazione costante e intima fra i diversi livelli di coscienza.
È importante chiarire, a questo punto, che la coscienza alaya non dovrebbe essere intesa soltanto in senso ontologico, semplicemente in quanto esistente, ma anche come qualcosa che racchiude una dimensione cognitiva e persino etica.
I livelli di coscienza mano e alaya hanno molti punti in comune con il concetto di inconscio individuale e collettivo della psicologia junghiana.
Prendiamo innanzitutto in considerazione la coscienza mano, che da un lato emerge dalla coscienza alaya e dall’altro focalizza su di essa la sua “attenzione”.
In questo senso, il livello di coscienza mano può essere considerato come la sede della più basilare coscienza del sé. Il verbo sanscrito da cui deriva è manas, che significa “pensare” o “considerare”. Dunque la coscienza mano riguarda sempre il pensiero, la riflessione, potremmo dire l’oggettivazione della coscienza alaya dell’individuo, che viene percepita come qualcosa di unico e di isolato dal resto. È per via di questo forte attaccamento o adesione a una coscienza alaya oggettivata che la coscienza mano genera un senso del sé limitato e isolato, che nel Buddismo si definisce “piccolo io”.
Quando la coscienza mano funziona in questa maniera genera una serie di potenti illusioni che si manifestano negli altri, più immediati, livelli di percezione e di coscienza, sotto forma di attaccamento e di orgoglio nei confronti del proprio senso di sé separato. L’illusione che la coscienza alaya oggettivata sia il proprio vero io si identifica con l’oscurità fondamentale, l’allontanamento dalla verità della interrelazione tra tutti gli esseri. Ed è proprio il senso di isolamento e di separazione del proprio io dagli altri che genera le discriminazioni, l’arroganza distruttiva e l’egoismo.
Il piccolo io è profondamente insicuro, e oscilla fra un senso di superiorità e un senso di inferiorità nei confronti degli altri; cercando di raggiungere il proprio appagamento nuoce o ferisce inconsapevolmente gli altri. Quando la coscienza mano è piena di illusioni riguardo la natura dell’io si genera un’ulteriore serie di illusioni, che l’antico Buddismo si adoperò a definire, numerare e classificare, ma sulle quali sorvoleremo per motivi di tempo. Ci limiteremo a dire che la coscienza mano opera per creare un forte senso di separazione fra sé e le altre persone, generando tendenze discriminatorie verso coloro che vengono percepiti come “gli altri”.

Le caratteristiche della coscienza alaya
Nel Trimisika-vijnapti Vasubandhu attribuisce le seguenti caratteristiche alla coscienza alaya. Innanzitutto, non è oscurata dalle illusioni ed è moralmente neutra, ovvero, è ugualmente predisposta a ricevere l’impronta karmica di cause sia negative che positive. In secondo luogo, è estremamente dinamica: il suo fluire può essere paragonato a quello di un fiume in piena. In sanscrito la parola alaya significa “immagazzinare”, ed è qui che le cause latenti, spesso descritte metaforicamente come semi karmici, si depositano.
Il karma è, naturalmente, un concetto basilare del Buddismo. Secondo questo concetto i nostri pensieri, parole e azioni (siano essi appartenenti alla parte conscia o inconscia del livello mano) esercitano invariabilmente un’influenza che viene impressa o registrata nel livello più profondo della nostra vita: la coscienza alaya. Quando incontrano le condizioni per potersi esprimere, queste cause latenti, o semi karmici, divengono manifeste come funzioni della coscienza mano o altri livelli di coscienza più superficiali.
Tali semi karmici possono essere positivi o negativi. Le cause latenti positive si manifestano in funzioni psicologiche positive come fiducia, nonviolenza, autocontrollo, compassione e saggezza. Le cause latenti negative si manifestano sotto varie forme di illusioni e di comportamenti distruttivi. In questo senso il funzionamento della coscienza alaya deve intendersi precedente rispetto a quello delle illusioni, poiché non viene macchiato o influenzato da queste. Resta neutro e ugualmente ricettivo a ogni altro tipo di impronta karmica.
Come già menzionato, la coscienza alaya interagisce costantemente e intimamente con altri livelli di coscienza, come la coscienza mano, la coscienza vigile e le funzioni sensoriali. Non è una realtà o un’entità separata: sarebbe più corretto considerarla come una corrente vitale che fluisce ininterrottamente. È questa mancanza di staticità, questa fluidità, che consente di trasformare il suo contenuto, e di conseguenza il funzionamento degli altri livelli di coscienza.

La trasformazione della coscienza e l’ottenimento della saggezza
L’idea di trasformare la coscienza e di ottenere la saggezza è centrale nella psicologia buddista e forse rappresenta il contributo più diretto del Buddismo al concetto di self-empowerment.
Gli otto livelli di coscienza citati sopra vennero descritti dalla scuola indiana Yogacara. Furono poi le scuole T’ien-t’ai e Hua-yen (Kegon) in Cina a scoprire una nona coscienza, la coscienza amala, incontaminata, che supporta e abbraccia tutte le funzioni della coscienza alaya sottostante.
Riprendendo quelle spiegazioni delle nove coscienze, Nichiren descrive diversi tipi di saggezza che si manifestano a ogni livello di coscienza. La coscienza amala manifesta la saggezza di comprendere che siamo tutt’uno con l’energia vitale cosmica. Questa è la saggezza fondamentale dell’universo vivente, manifestando la quale diventiamo capaci di trasformare il funzionamento degli altri livelli di coscienza, inclusa la coscienza alaya, dove risiedono le cause karmiche profonde. Tale trasformazione è l’obiettivo della psicologia buddista e della pratica buddista, che include la ricerca dell’altruistica via del bodhisattva.
La pratica buddista imprime i semi di cause positive nella coscienza alaya. Maggiori e più forti sono tali cause, maggiore sarà la trasformazione del contenuto della coscienza alaya. Quando la coscienza alaya viene trasformata, brilla della luce di una saggezza che può essere paragonata a un grande specchio che riflette perfettamente il vero aspetto di tutti i fenomeni. Questa è la saggezza dell’interdipendenza, la saggezza di percepire e di comprendere che, al livello più profondo, siamo tutti interrelati e interdipendenti.
Quando la coscienza alaya viene trasformata in questa maniera, fa sorgere nella coscienza mano la saggezza di percepire tutte le cose nella giusta misura. In altre parole, la coscienza mano non funziona più come il luogo di una coscienza fondamentalmente discriminatoria, ma è in grado di percepire la sua “propria” coscienza alaya come anch’essa parte di una energia vitale cosmica che si evolve creativamente. A quel punto la coscienza mano cessa di generare l’immagine di un “io” falsamente separato e in profondo conflitto ontologico con gli altri.
Il superamento della tendenza, profondamente radicata, di oggettivare e di aggrapparsi alla coscienza alaya consente all’individuo di superare i sentimenti di paura e di angoscia riguardo alla morte fisica. Questi vengono sostituiti dalla profonda consapevolezza che la coscienza alaya è un flusso vitale che si manifesta ripetutamente in cicli di vita e di morte, flusso allo stesso tempo sorretto e contenuto dalla vitalità fondamentale e dalla saggezza inerenti all’universo, ovvero dalla nona coscienza o coscienza amala. La morte viene così vista come il ciclico decadimento dell’abilità di sostenere il buon funzionamento della coscienza mano, della coscienza vigile e degli organi di senso. Alla morte dell’individuo queste funzioni diventano latenti all’interno della coscienza alaya, la quale però non si estingue, ma mantiene la continuità del flusso vitale durante il corso dei cicli di vita e di morte.
Quando si superano le profonde illusioni che riguardano la natura dell’io e della sua esistenza, la coscienza mano può funzionare come deposito di cause positive come la fiducia, l’autocontrollo e la compassione.
La trasformazione degli strati più profondi della coscienza influisce sul funzionamento della cognizione e della percezione, localizzate nella coscienza vigile e nell’apparato sensoriale. Queste vengono permeate da una propria forma di saggezza, che comprende la saggezza di controllare liberamente le funzioni dei sensi e di agire nella maniera più efficace per avanzare nella propria vita e sostenere gli altri nella stessa impresa.
Una persona che lotta costantemente per ottenere questo tipo di trasformazione profonda di tutti i livelli di coscienza, e che cerca di aiutare gli altri a fare lo stesso, è chiamata bodhisattva.

Il movimento della SGI e la via del bodhisattva
Nel Buddismo di Nichiren, la pratica fondamentale consiste nella recitazione del mantra Nam-myoho-renge-kyo davanti al mandala iscritto da Nichiren con lo scopo di consentire a tutte le persone di manifestare la saggezza profonda della nona coscienza o coscienza amala. In questa maniera cerchiamo di trasformare la coscienza e ottenere la saggezza, cerchiamo di risvegliare la natura di Budda che è una cosa sola con l’energia vitale dell’universo e di consolidare un io da bodhisattva.
Nichiren identifica le quattro virtù del bodhisattva con il vero io, l’eternità, la purezza e la gioia.
La virtù del vero io potrebbe essere intesa come l’esperienza di una libertà in espansione e di speranza, derivanti dal senso di unione con l’energia vitale dell’universo. L’eternità indica la creatività inerente alla vita dell’universo, che porta a un costante rinnovamento e rivitalizzazione: è la capacità di superare ogni ostacolo. La purezza è la funzione della vita cosmica di pulire l’egoismo restrittivo che sporca e distorce l’io. Infine, la gioia è la qualità dell’auto-realizzazione, uno stato vitale di estrema fiducia e serenità basate sull’identificazione di sé con la vita universale.
Nichiren asserisce che il vero bodhisattva manifesta l’intera gamma di queste quattro virtù. Sono queste virtù che rendono il bodhisattva capace di trasformare le circostanze negative in occasioni di crescita e di creazione di valore. È per questa ragione che il bodhisattva non cerca di evitare le difficoltà e le sfide della vita, e non si tira indietro di fronte a esse, ma preferisce piuttosto viverle, conoscerle e affrontarle a testa alta.
Secondo Nichiren, il beneficio che deriva dalla recitazione di Nam-myoho-renge-kyo è la trasformazione delle inevitabili sofferenze della vita – quelle che il Buddismo chiama “le quattro sofferenze” di nascita, vecchiaia, malattia e morte – nelle quattro virtù di vero io, eternità, purezza e gioia. Il bodhisattva, trasformando queste esperienze, così spesso causa di grandi sofferenze, nell’opportunità di svilupparsi e di avanzare, ispira gli altri a seguire lo stesso sentiero che porta a “trasformare la coscienza e ottenere saggezza”.
Attraverso un coinvolgimento attivo a favore degli altri possiamo continuamente rafforzare e approfondire questo io da bodhisattva, in uno sforzo che non è limitato al raggiungimento della felicità personale, ma che comporta un impegno profondo di realizzare la pace, sia per l’umanità che per l’intera biosfera.
L’attività della Soka Gakkai Internazionale per la realizzazione di un movimento contemporaneo della via del bodhisattva si basa sugli sforzi di singoli individui di trasformare il proprio cosmo psichico interiore. Manifestando saggezza in tutti i livelli di coscienza e incoraggiando lo sviluppo di tale saggezza nella propria famiglia, nella propria comunità e nella società, cerchiamo di superare le illusioni che danno origine a una tristemente nota serie di mali personali e sociali: dal senso di incapacità di agire che affligge così tante persone, ai conflitti all’interno della società e fra le diverse società, sino alla distruzione dell’ecosistema. Anche se il sentiero del bodhisattva potrebbe apparire come un approccio troppo graduale, noi siamo fiduciosi del fatto che in realtà rappresenti una trasformazione fondamentale, che ha il potere di cambiare al meglio la vita sia degli individui che di tutta l’umanità.

(traduzione di Flavia Castellano)

&nbsp;

Il Buddismo di Nichiren e l'empowerment

Dalla povertà della foresta al ministero del'Ambiente del Brasile







di Enzo Cursio



Quando mi chiesero di accompagnare Marina Silva durante la sua visita a Roma, non sapevo chi fosse. Mi misi a cercare notizie su Internet, affiorarono i primi dati biografici ma nulla di entusiasmante. Poi chiesi a qualcuno di raccontarmi la sua vita e, come per incanto, come se venisse fuori dalla bocca di un cantastorie, ascoltai ancora una volta storie di popoli, poveri, schiavi. Era il racconto di una bambina malata, figlia di seringueiros, i raccoglitori di gomma, gli sfruttati della foresta amazzonica. Era la storia di una bambina che ha cambiato il destino di un popolo: Marina Silva, oggi una giovane donna di circa quarant’anni. 
Marina muove i primi passi tra i raccoglitori di caucciù in mezzo alla miseria più desolante. Il 47% dei bambini non superava i primi mesi di vita e la malaria e la fame uccidevano quotidianamente quel popolo di schiavi. 
Presto lascia la foresta e arriva in città per curarsi. Ne approfitta per studiare. A diciassette anni si iscrive ai programmi federali di educazione integrata e in due mesi impara a leggere e a scrivere mentre si mantiene facendo la cameriera. Torna alla comunità più consapevole e con una unica convinzione. Dire basta a quella ingiustizia. Dire basta all’inferno. Cominciano i conflitti fra latifondisti, compagnie transnazionali e seringueiros. Marina viene designata rappresentante della comunità. È ancora debole, ed è una donna. 
«Era una vita durissima – racconta. Riuscivamo a sopportarla solo grazie alle tradizionali conoscenze indigene, che ti insegnano come sopravvivere e curarti grazie alla solidarietà della comunità. Ricordo la tristezza dei bambini costretti a lavorare. È stato lì che ho deciso che i miei figli avrebbero dovuto fare un’altra vita. E poi ho deciso che quella vita non avrebbe dovuto farla proprio nessuno». Marina si iscrive al sindacato e viene mandata a frequentare la scuola di formazione politica che le permetterà di incontrare le due persone che ancora oggi influenzano la sua vita, la sua azione: Chico Mendes e Padre Leonardo Boff, leader della teologia della liberazione. Con Mendes condivide l’impegno per la giustizia e le battaglie di lotta contro la povertà e per il riscatto. Nel 1988, il leader sindacale viene ucciso e tocca a Marina guidare quel movimento di milioni di diseredati e tenerlo unito fino al pieno riconoscimento dei diritti civili. «Il Brasile dovrà essere l’esempio di come si possa arrivare a una soluzione pacifica dei conflitti sociali, etnici e ambientali» – ha sempre affermato. Viene eletta senatrice nel Partito dos Trabalhadores e nel 1999, nel pieno del governo liberista di Cardoso, fa approvare il programma Amazzonia solidale. Un programma di sviluppo che rianima la speranza in tanti disperati della foresta. Si comincia a garantire l’insediamento di migliaia di famiglie grazie a progetti di coltivazioni agricole, di formazione, di assistenza sanitaria, scolastica e sociale. Attualmente, per Marina Silva lo sfruttamento della foresta amazzonica rappresenta una priorità. Il polmone verde del pianeta rischia di perdere nel prossimo ventennio duecentocinquanta mila chilometri quadrati. Il problema Amazzonia e il processo di sviluppo economico del paese sono strettamente legati, ne è convinta. È per questo che si è battuta e si batte per la riformulazione del controverso piano di investimenti in infrastrutture e impianti produttivi nel cuore dell’Amazzonia. Una sfida che si preannuncia difficile. Oggi è la “ministra degli indios”, così viene chiamata da milioni di brasiliani. Quando la incontro mi trovo davanti una figura esile, quasi trasparente. Per certi versi mi ricorda il dramma interiore di Frida Kahlo. Una fragilità annientata da uno sguardo convinto, da due occhi di giaguaro.



Signora Silva, da dove ha tratto la forza per le sue lotte? 
Il mio carburante è la fede, la determinazione. Quando si mette la fede al primo posto e al secondo posto la determinazione, non si può mai credere che qualcosa sia impossibile. 
Quindi, azioni per il futuro, azioni per la storia. La storia è un processo di tante azioni progressive. Credo nel valore delle azioni, delle esperienze. 
Forse è per questo che sono convinta che le cose che non potrò vedere realizzarsi durante la mia vita altre persone continueranno a sognarle. Altri continueranno ad agire. Per questo, oggi come allora mi sentirò parte di questo processo.



Chi sono stati i suoi punti di riferimento? 
Sono tre. Uno: la mia formazione cristiana. Ritengo di aver imparato molto con la fede cristiana, soprattutto quando insegna che l’albero che non dà frutti è come se fosse morto. Le parole non hanno nessun senso se rimangono soltanto parole. È necessario che si tramutino in una azione concreta, è necessario che si passi dalle mere formulazioni teoriche alle azioni visibili nella realtà. Bisogna andare oltre le parole, soprattutto quando ci si batte per la preservazione dell’ambiente, dell’integrazione sociale, ci si impegna nella creazione di un nuovo modello di relazione e sviluppo. 
C’è stata poi l’influenza di mio padre. Era una persona molto corretta. Un uomo con una grande passione per la giustizia, con nuovi valori, nonostante fosse in realtà molto semplice. 
Il terzo è Chico Mendes: se con la mia fede ho imparato ad amare l’ambiente e con mio padre ho imparato a lavorare rispettando la natura, con Chico ho imparato a lottare per la sua salvaguardia.



Ci parli di Mendes 
Chico Mendes è stata una persona che mi ha insegnato tanto. Mi ha insegnato a non aver paura di diventare una leader. Ma soprattutto a esercitare la leadership politica senza tradire i miei valori. In modo fraterno, orizzontale, senza centralizzare, condividendo con le persone la maternità delle idee così come i meriti e i riconoscimenti ottenuti.



Quali sono le sue origini? 
Non provengo dalle popolazioni degli indios, che sono autoctone dell’Amazzonia: le mie origini sono legate alle popolazioni tradizionali dei seringueiros che provengono dal nord est del Brasile e sono emigrati all’inizio del XX secolo.



E l’origine delle sue battaglie? 
Le lotte iniziarono presto. Dall’epoca della mia infanzia, e proseguirono nella mia gioventù. Era il periodo della resistenza contro l’occupazione dell’Amazzonia. Allora resistevamo contro la creazione di grandi latifondi destinati all’allevamento del bestiame. Furono lotte molto dure, dove partecipavano i sindacati, le ONG, i movimenti sociali della Chiesa progressista dello stato dell’Acre assieme al vescovo Don Moacir Greg. 
Ma la mia battaglia è legata alla lotta dei popoli della foresta, dei seringueiros e degli indios. Comuinicai con Chico Mendes, prima del suo tragico assassinio. Tutta quella lotta è stata resistenza. Resistenza alla devastazione, al disboscamento.



Da allora sono stati fatti notevoli passi avanti... 
È bello sapere che da allora a oggi ci sono stati tanti risultati. Soprattutto perché oggi in Amazzonia, grazie a queste lotte, esistono molti movimenti organizzati: tra la società civile, tra gli indios, i pescatori, le quebradeiras de coco (donne che lavorano nella frantumazione del cocco), insomma, tra persone che hanno una relazione molto forte con la foresta e con l’obiettivo della sua salvaguardia. 
Inoltre, siamo anche avanzati politicamente. Soprattutto dal punto di vista della consapevolezza e della coscienza sociale. C’è ormai una convinzione collettiva che l’Amazzonia debba essere preservata. Nello stesso tempo esiste la consapevolezza che lo sviluppo della regione debba essere compatibile con la crescita economica, il miglioramento della qualità di vita delle persone senza tralasciare la salvaguardia della foresta. Ci troviamo di fronte a tre punti inscindibili: sviluppo economico, salvaguardia della biodiversità e rispetto delle popolazioni tradizionali nelle loro manifestazioni culturali, sociali ed economiche.



Quale è oggi il suo obiettivo? 
Azzerare la fame nel mio paese. Per azzerare la fame vogliamo partire proprio dalla riforma agraria. Desideriamo dare la terra ai cinque milioni di contadini ancora senza un campo da coltivare. L’idea del nostro governo è quella di ribaltare il concetto che per sviluppare la società basta partire dall’economia. Per questo il Ministero dell’ambiente, per la prima volta nella storia del Brasile, è completamente integrato al resto del governo. Vogliamo portare acqua potabile nelle regioni più povere del Brasile. 
Oggi come Ministra dell’ambiente ho di fronte una grande sfida: l’attuazione di politiche che rendano compatibili la crescita economica con criteri di sviluppo sostenibile che accolgano tutte le dimensioni, economica, politica, sociale e culturale… 
Devo agire ora.



(traduzione di Andrea Pires Paiva)



&nbsp;

La ministra dell'Amazzonia

Empowerment

In prima persona: Viola Padovani

a cura di Marina Marrazzi

Da una serie di continui fallimenti economici e professionali alla realizzazione di un sogno: portare un aiuto concreto alle popolazioni povere dell’India. La storia di Viola Padovani, presidente del Centro Studi Platone, che in soli sei anni ha fondato tre scuole che accolgono, educano e nutrono più di trecento bambini

Questa è una storia normale e insolita. Normale perché parte da pulsioni elementari e condivise: il desiderio di guardarsi intorno, di dare una mano, di essere consapevoli dei problemi degli altri anche a livello planetario. Di fare qualcosa.
Insolita perché i protagonisti sono riusciti a utilizzare queste pulsioni per creare fatti concreti e ottenere risultati tangibili. Tanto per cominciare, una ONG con sede in India attraverso la quale hanno fondato tre scuole che oggi accolgono e danno da mangiare a più di trecento bambini, in una delle zone più povere del paese.
È Viola Padovani che ci ha raccontato in prima persona questa storia, durante un bell’incontro che abbiamo avuto nella sede romana del Centro Studi Platone, l’associazione di cui è presidente.

«Sei anni fa una notte decido di partire per l’India con Virgilio, mio figlio, che allora aveva circa diciotto anni. Ero già stata in oriente. Probabilmente avevo in me chiaro il perché volevo tornare in quel grande paese, dove il livello di povertà è assoluto, e in alcune condizioni gli esseri umani e i topi si confondono. Volevo riportare un “seme di coscienza” in occidente, perché la gente si rendesse conto che in tre quarti del pianeta si muore di fame, di ignoranza, di malattia, di tragedia interiore.

Da dove sono partita? Nella mia storia ho avuto una serie di fallimenti economici. Il mio lavoro era insegnare pianoforte, lavoravo con la musica, ma non ero un genio, la mia vera passione era la danza. Poi ho tentato qualche attività commerciale ma ero pessima da questo punto di vista, e così ho perso tutto. Alla luce di dove sono arrivata oggi posso dire che è stato molto meglio così.

Dunque siamo partiti per l’India, verso questo progetto che si è poi concretizzato nella creazione di una scuola a Vizhinjam, nello stato del Kerala. Siamo partiti in pochi: io, Claudia, Gerardo mio marito, Mirko, Rino, Tommaso, Barbara, Loredana. Nel tempo si sono aggiunti Virgilio e Simona, i miei figli. Ognuna di queste persone ha permesso la concretizzazione dell’impresa, perché da sola non ce l’avrei fatta. È fondamentale la nostra sinergia.

Arrivati in India la prima volta non sapevamo da che parte cominciare. Per poter operare concretamente sul territorio dovevamo avere una qualche ufficialità, e così abbiamo deciso di costituire una ONG. All’inizio sembrava impossibile: ci servivano otto soci indiani… noi eravamo stranieri, arrivati dal nulla… Siamo andati a bussare porta a porta, e incredibilmente in un mese abbiamo trovato tutti i soci. Dopo tre mesi abbiamo fatto lo statuto, dopo sei abbiamo iniziato la costruzione di una casa per la famiglia più povera, e dopo nove il Centro studi Platone esisteva come ONG.

La nostra è un’organizzazione molto povera: abbiamo attinto alle nostre casse personali, e quello che non c’era l’abbiamo preso con prestiti ecc… cercando soprattutto di esprimere l’obiettivo interiore.

La scuola che abbiamo costruito, che raccoglie bambini delle quattro religioni presenti in India – cattolica, musulmana, induista, buddista – ha avuto una crescita costante: dodici, venticinque, cinquanta, adesso i bambini sono trecento.
Oggi esistono tre scuole (due kinder garden con una mensa principale e una scuola per bambini più grandi con una mensa che abbiamo costruito da poco). Per cercare di avere meno problemi con il governo abbiamo creato un piccolo centro nostro dentro una scuola governativa: in qualche modo è una piccola garanzia.
Qual è il criterio con il quale scegliamo i bambini? Privilegiamo i più poveri, ci siamo collocati fisicamente nella zona più povera. Il nostro centro è come un’isola, ma con le porte aperte. Riusciamo ad avere un buon rapporto anche con quei bambini che non possiamo far entrare durante i pasti. In tutti i momenti di festa io li chiamo e li faccio entrare…

Il problema religioso, per me, è il problema. Nella nostra scuola, per esempio, la difficoltà maggiore non è trovare il denaro per dare da mangiare ai bambini o entrare in relazione con gli insegnanti, ma è il problema religioso, che crea delle barriere insormontabili. Basta essere un gradino sopra alla soglia della sopravvivenza che emergono forti le lotte religiose. Perciò mi sembra tanto più importante essere riusciti quest’anno a far danzare tutti insieme settecento bambini delle quattro religioni.

Nella nostra scuola mi trovo a dover affrontare tante situazioni estreme, potenzialmente scoraggianti (i bambini o i loro genitori malati che non possono curarsi, la fame), ma quello che mi turba e mi confonde di più è vedere la rassegnazione. Quando io mi sento impotente che faccio? Il fatto di non essere sola mi aiuta moltissimo. E poi mi aiuta vedere i risultati dei nostri sforzi: vedere nel tempo i bambini che si rianimano, che non sono più così passivi, che cominciano a insegnare ai genitori.
Torniamo al tema dell’empowerment, che voi chiamate “alzarsi da soli”, e che io assocerei all’immagine dell’araba fenice che risorge ogni volta dalle proprie ceneri.
Nei momenti di difficoltà si tende a far pesare tutto sulla bilancia delle cose negative, così sembra impossibile farcela e arriva la rassegnazione.
Cosa metto in atto quando trovo ceneri dentro e/o fuori di me? La fede. Per me la fede è energia, movimento, moto perpetuo. Come una giostra, come un pianeta che non può essere fermato. È una ricarica costante. Perché è talmente forte la mia sensazione di vivere compenetrata con il tutto che mi sento accartocciata se non c’è questo respiro.
Poi è importante non avere aspettative, non fissarsi su un risultato che deve essere per forza in un certo modo, ma sapere anche accettare quello che viene. Senza per questo dover rinunciare al fervore della ricerca personale.
È vivere nella rassegnazione quello che mi toglie energia, il piombo che mi porta in fondo. Oggi c’è una rassegnazione quasi globale. Credo che questo dipenda da un’idea alterata della morte, dal voler mettere per forza tutto dentro un “finito”, e quindi autocostringersi e autodistruggersi. Questa cosa io l’ho combattuta sempre».

(ha collaborato Antonio Marcasciano)

&nbsp;

Una scuola in India

Empowerment

In prima persona: Roberto Battelli

a cura di Roberto Carvelli

Sordocieco fin dai primi mesi di vita, Roberto Battelli è pieno di grandi passioni, dalla politica alla letteratura alla musica. Virtuoso dell’organetto, sogna di entrare in una banda e di girare il mondo. Racconta il suo incontro con il Buddismo come un vero e proprio processo di empowerment: «Io sono stato sempre dalla parte dei perdenti e con la pratica ho scoperto che i perdenti possono diventare vincenti»

Roberto Battelli ha quarantacinque anni e se si eccettuano i primi sei mesi il resto della sua vita l’ha trascorsa da non vedente sordo. «Sono nato e vissuto in una casa con giardino poi, ancora piccolo, siamo andati ad abitare al terzo piano di un palazzo. Un giorno mia madre mi ha trovato in bilico sullo sprofondo del balcone… credevo che tutto il mondo fosse fatto di villini con giardino, capisci? Io praticamente non ho mai visto. I colori sono solo nomi vuoti, mentre il suono è carico di tutto. Adoro in modo particolare gli uccelli… di tanti so imitarne il richiamo… ascolta…» e ripete alla perfezione il richiamo del merlo, poi del passero. Roberto ha un apparecchio che gli permette di recuperare un venti per cento di udito, così riesce ad ascoltare la musica e a suonarla persino. Ha una collezione di strumenti da tutto il mondo ma al centro c’è l’organetto, uno degli strumenti principe della musica popolare italiana. Ama tenere delle conversazioni interminabili e articolate purché pacate, parlando uno alla volta. Ha una passione particolare per il contraddittorio. «Sono un bastian contrario di natura, forse per questo mi sono avvicinato al Buddismo. Se fossi nato in Giappone sarei stato un ottimo cattolico. Fino all’incontro con questa nuova religione invece ero stato rigorosamente ateo e invece mia madre mi portava sempre a forza in parrocchia. Le mamme dei ragazzi “handicappati” hanno quasi una fissazione: trovarti gli amici in parrocchia. Io non li sopportavo e li facevo scappare tutti. Non ero tipo da parrocchia ma da Folk Studio, da centro sociale. Io sono uno a cui piace discutere di tutto: l’articolo 18, la politica... Adoro che si chieda il mio parere sulle cose».
Roberto ha conosciuto il Buddismo di Nichiren Daishonin nel 1986 ma si considera buddista dal 19 ottobre 1995, ovvero – la data la ricorda a memoria – da quando ha partecipato al primo incontro. «Fino ad allora ero stato un clandestino della pratica buddista, posso considerare questa data come il mio vero inizio. Partecipare alle riunioni è fondamentale perché unisce l’aspetto della comunità alla forza tutta interiore della pratica. Conoscere la Soka Gakkai è stato uno degli incontri che hanno segnato la mia vita. Pur essendo una organizzazione senza alcuna esperienza di disabilità è riuscita a fare per me quanto e più di quello che ha fatto la Lega del filo d’oro di Osimo a cui sono assolutamente grato perché mi ha insegnato a essere autonomo. Per quanto riguarda l’inizio assoluto, il 1986, fu un incontro-scontro con un operatore della USL in una colonia estiva. Mi domanda: «Cosa pensi della religione?…» e si prende un solenne schiaffone. Poi dopo tre giorni, lo crederesti, recitavo Nam-myoho-renge-kyo. I primi momenti da buddista sono stati come passare l’alcool su una ferita, poi mi sono sentito rigenerato. È stato come gettarsi nel mare dell’universalità. Io che dicevo “la religione è l’oppio dei popoli”, che mi definivo agnostico, ho scoperto che l’essere umano non può vivere senza e ho approfondito, a livello storico-antropologico, lo studio anche di altre religioni così come le sette. Mi ha colpito il fatto che non ci sono intermediazioni, siamo noi al centro di tutto, il divino non opera distinzioni. Mi viene da avvicinarla al marxismo quando invita al “da ciascuno secondo le proprie capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”. Io sono stato sempre dalla parte dei perdenti e con la pratica ho scoperto che i perdenti possono diventare vincenti. Il Buddismo di Nichiren mi ha aiutato molto, anzi mi correggo, moltissimo. L’incontro con la pratica è stato assolutamente rigenerante: mi sono detto “va bene, ripartiamo da zero” e ho fatto mio il principio della rivoluzione umana. Tutte le rivoluzioni hanno cambiato il mondo, e staremmo ancora all’età della pietra se non ci fossero state, ma la rivoluzione umana, il cambiamento radicale del singolo, fa paura perché non causa vittime come le altre. Invita a fidarsi di tutti, sospinge verso la fratellanza universale, il rinnovamento del singolo».
L’anno scorso Roberto ha sostenuto grazie all’Istituto Sant’Alessio (che ha stampato in braille i materiali per sostenerlo) l’esame per diventare membro di studio buddista e lo ha superato brillantemente. A sentirlo nessun dubbio: spazia da religione a filosofia, sbandierando l’amore per la magia e l’occulto, Harry Potter e i romanzi da brividi e sospiri come quelli di Ludlum. Adora leggere. È curioso di tutto. Ma la parte del leone la fanno i tomi braille («adoro leggere in braille», anzi vale la pena ricordare che si è da poco festeggiato il 150° della morte di Braille, l’inventore omonimo dell’alfabeto) che arrivano dalla biblioteca di Monza.
Roberto trabocca di obiettivi personali. Vuole approfondire la conoscenza del Buddismo e incoraggiare alla pratica i suoi parenti e amici: già quattro tra nipoti e amiche hanno conosciuto e sperimentano con lui lo stesso percorso. «Non so cos’ha – dice la madre – la gente rimane incantata. Si fermano ad ascoltare la sua esperienza e rimangono colpiti. C’è qualcosa che non so spiegare…». La signora Maria è cattolica ma dice: «Non ho mai ostacolato nulla. Vedevo che gli faceva bene. I cambiamenti sono stati radicali ed evidenti da subito. Era irascibile e contro tutti. Specie con me e il papà era negativo e violento. Abbiamo sofferto molto per questo. Ora ascolta di più, ci si può parlare. È diventato malleabile».
Roberto ora sogna di fare una tournée come organettista («la banda di Vicovaro Mandela ne cercava uno ma è troppo distante per me»), di avere anche allievi a cui insegnare la musica popolare e di girare il mondo salendo sulle ali del cielo come gli amati uccelli (Robertino degli uccelli è il titolo di un suo romanzo speriamo di prossima uscita) partendo dalla Louisiana («la patria degli artisti che come me non sanno quello che vogliono»), il suo sogno di sempre, e tutta l’America latina, le Ande in maniera speciale («quando sento la musica andina salgo sulle montagne e inizio a respirare a fatica anch’io»).

&nbsp;

Robertino degli uccelli

di Roberto Carvelli



Santino Spinelli in arte Alexian è un rom abruzzese nato a Pietrasanta (Lucca) nel 1964. È musicista compositore, cantautore, insegnante, poeta, saggista. Nel corso della sua carriera di musicista ha tenuto numerosi concerti in Italia e all’estero. Dirige la sezione di Lanciano del Centro didattico musicale italiano. Ha inciso quattro dischi strumentali e cantati interamente in romanì (la lingua zingara); un CD nel 1996 dal titolo Gijem Gijem e ha all’attivo tanti libri di saggistica e narrativa. Da qualche anno è docente di Lingua e letteratura zingara (romanì) all’Università di Trieste, una primizia italiana: un rom che diviene insegnante della sua cultura a livello universitario, inaugurando una cattedra che non c’era, una trasformazione che non potevi pensare. Abbiamo creduto che fosse importante sapere come si possa trasformare uno stereotipo, saltare un fossato di pregiudizi e affrancarsi dalla morsa stretta di una diversità usando il potere morbido della cultura e della tolleranza.



Ha un curriculum sterminato, potrebbe raccontarci da dove è partito? 
Sono partito da Lanciano, la città in cui vivo, e qui ho cominciato sia ad andare a scuola sia a studiare la musica fin da bambino, quando mio padre con lungimiranza decise di smettere di attuare un nomadismo stagionale e di stabilirsi qui. Una delle mie tante fortune è stata quella di essere l’unico figlio maschio dopo cinque femmine in una famiglia patriarcale. La mia famiglia mi ha creato una barriera protettiva straordinaria che si è rivelata, nel corso degli anni, vincente e determinante.



C’è stato mai un momento in cui ha pensato di non farcela e cosa, poi, le ha permesso di farcela? Su quali elementi interiori ha fatto leva, chi la ha aiutata? 
Sono stati tanti i momenti di sconforto, ma grazie al mio carattere, al mio ottimismo e al fatto di pensare sempre positivo, ho imparato a gestire la mia persona anche nelle situazioni difficili sia con me stesso che con gli altri. In me sempre hanno convissuto due identità, quella romanì e quella italiana. Queste due identità spesso mi si contrapponevano rappresentando due fiere ferocissime che potevano dilaniarmi e rendermi mezzo uomo. Ho dovuto con pazienza rendere queste due fiere mansuete, cosicché le ho addomesticate dentro di me e le ho fatte convivere. Oggi queste due identità sono armoniosamente sovrapposte e non contrapposte, e rappresentano un punto di forza perché mi permettono di avere della vita due visuali che si completano.



È riuscito a incoraggiare altri rom a emergere o a uscire da situazioni marginali? 
Per aiutare altri rom ad uscire da situazioni marginali ho fondato l’associazione Thèm Romanò (che significa “mondo zingaro”, il cui sito internet è: http://web.tiscali.it/themromano), che da anni svolge a livello internazionale attività dirette alla valorizzazione e al rilevamento del patrimonio culturale romanò, oltre che promuovere iniziative di carattere sociale che permettano al rom di essere diretto protagonista del proprio riscatto sociale e culturale. Una di queste iniziative è il concorso artistico internazionale Amico rom arrivato alla sua decima edizione, o le riunioni del Gruppo pedagogico delle commissioni delle Comunità Europee coordinate dal Centro di ricerche zingare de La Sorbonne di Parigi che si occupa della scolarizzazione dei bambini rom. 
Ciò che sempre ho cercato di trasmettere ai rom è la possibilità di percorrere la Terza via, ovvero la terza possibilità di esistere, né come emarginato né come assimilato, ma come cittadino pienamente inserito nel contesto sociale del mondo ospitante senza perdere nulla di quelle che sono le peculiarità che contraddistinguono la Romanipè (l’identità romanì): dalla lingua, alle tradizioni, ai valori etici, a quel particolar modo di porsi di fronte alla vita e di interiorizzarla caratteristico dei rom. A tutto ciò sono visceralmente legato, è ciò che mi permette di identificarmi con orgoglio con la mia famiglia e con la mia comunità.



Non è un fatto comune che un rom diventi professore universitario. Che effetto le fa essere diventato un portavoce autorevole della sua cultura, una cultura tutt’altro che accademica e così poco “del libro”? 
Ancor prima di essere professore universitario sono un musicista, e questo mi permette di incontrare quotidianamente tante persone a cui posso donare una grande opportunità: quella di esercitare un diritto inalienabile, il diritto di conoscere un mondo normalmente filtrato solo attraverso stereotipi negativi. Siamo l’unico popolo al mondo a essere considerato solo per gli aspetti sociali eludendo la conoscenza di un enorme patrimonio culturale. L’opinione pubblica è privata del diritto di conoscere la letteratura romanì, la lingua romanì, la pittura romanì e la cultura intesa in senso antropologico. Questo enorme patrimonio umano e culturale appartiene all’umanità ma viene, attraverso un perverso meccanismo politico e sociale, quotidianamente represso e impoverito. Il mio ruolo è delicatissimo perché ho il dovere morale di far incontrare due culture e due mondi che si ignorano reciprocamente, alienandosi l’opportunità di vantaggiosi scambi.



Lei ha compiuto una vera rivoluzione con le armi della cultura, una fioritura rigogliosa sorta apparentemente in un deserto: come ha fatto a trovare l’acqua in mezzo alla sabbia? 
Ho trovato forza e coraggio per le mie attività dalla consapevolezza che il mio popolo vive in una ingiusta segregazione razziale, mascherata da tanti stereotipi e luoghi comuni, senza che nessuno faccia niente se non per proprio tornaconto. Oggi la segregazione dei rom rappresenta una risorsa per tante associazioni di pseudo volontariato che hanno tutto l’interesse a che la situazione non cambi e che i rom restino un semplice problema sociale. Tutto ciò va a svantaggio della cultura, per cui personaggi di spicco, artisti importanti ed esponenti culturali rom sono relegati nel dimenticatoio e non hanno nessuna opportunità di emergere. 
Occorre comprendere che l’altro siamo noi stessi e che aver paura dell’altro significa aver paura di se stessi. Il mondo rom ha bisogno di sincera solidarietà e non di becero assistenzialismo, occorre rimuovere le cause che non permettono a un popolo di esprimersi pienamente superando le barriere della segregazione umana e culturale in un mondo che si considera civile e democratico. Il popolo rom, vorrei ricordarlo, è l’unico che non ha mai dichiarato guerra a nessuno e non ha mai attuato nessuna forma di terrorismo per rivendicare il sacrosanto diritto all’esistenza.



&nbsp;

Il professore dei rom

a cura di Marina Marrazzi



«Hai mai pensato che i tuoi diritti fossero negati? Hai mai ritenuto di aver subito un sopruso? Certamente sì. Ma forse non sapevi come tutelarti. Io – per farlo – ho scelto di essere un cittadino attivo...». Questo è l’invito che l’associazione Cittadinanzattiva rivolge a chi si affaccia al suo sito (www.cittadinanzattiva.it). Spiegando subito dopo che «i cittadini attivi sono quelli che hanno a cuore l’interesse generale, che si confrontano con questioni e argomenti all’ordine del giorno, che trovano un po’ di tempo e di energie da dedicare ai propri diritti e a quelli di tutta la cittadinanza». 
Cittadinanzattiva nasce con il nome di Movimento federativo democratico nel 1978 dalla decisione di una trentina di gruppi di giovani cattolici di sperimentare nuove forme di azione politica per il cittadino, in polemica ma non in alternativa alle forme tradizionali della politica. In venticinque anni il movimento ha promosso e sperimentato iniziative di “democrazia diretta” volte a coinvolgere i cittadini come protagonisti della tutela dei propri diritti in diversi campi della vita pubblica: salute, protezione civile, servizi pubblici, servizi per le donne, ordine pubblico, questione giovanile, diritti dei consumatori, giustizia, scuola. Teresa Petrangolini è segretaria generale di Cittadinanzattiva. L’abbiamo intervistata.



Come nasce Cittadinanzattiva? 
Venticinque anni fa insieme a un gruppo di altre persone ho dato vita a un movimento di cittadini. 
Abbiamo deciso di occuparci di quei problemi di cui la politica non si occupa mai ma che riguardano la vita comune delle persone: la sanità, lo stato dei quartieri, l’ambiente. È importante che i cittadini capiscano che non sono cittadini solo quando vanno a votare, ma che lo sono nella vita di tutti i giorni, quando chiedono informazioni a uno sportello o stanno di fronte a un medico. 
La missione di questa organizzazione – di cui sono stata una fondatrice e che adesso mi ritrovo a dirigere – è di promuovere la partecipazione civica dei cittadini alla vita pubblica attraverso la tutela dei loro diritti, una cosa molto elementare e semplice. 
All’inizio eravamo un gruppetto sparuto, oggi siamo cinquantamila iscritti.



Quali sono le iniziative più importanti? 
Una delle prime iniziative che abbiamo promosso è stata il tribunale per i diritti del malato, nel 1980. Da allora i progetti sono stati numerosissimi. 
Per esempio quest’anno ci stiamo occupando della sicurezza. È un programma sperimentale: abbiamo fatto dei corsi a Roma per insegnare alle persone come vivere in maniera più sicura prestando attenzione anche alle piccole cose: dal tappeto che se non ci metti sotto il fermo scivola, alla segnalazione alle autorità competenti delle buche per le strade, alla segnaletica che non funziona, ai lampioni con le lampadine rotte, ottenendo un accordo con il Comune per far sì che questo esercito di cittadini che si forma diventi un interlocutore per rendere la città più sicura. In Italia ci sono tre milioni di incidenti domestici l’anno, muoiono tantissime persone a causa di questi infortuni, ma raramente se ne parla. 
Un altro programma è la “banca del clima”. Abbiamo creato un sito Internet insieme al WWF che aiuta le singole persone a tenere sotto controllo i consumi di prodotti inquinanti. Se un cittadino diventa in prima persona colui che controlla l’ambiente, diventa un cittadino più forte nel lottare contro chi invece non lo rispetta: empowerment vuol dire diventare forte, acquisire le conoscenze e le capacità che permettono di fare fronte ai problemi. Il nostro slogan, che a me piace tantissimo, è: «Fare i cittadini è il modo migliore di esserlo».



Come agite in concreto? 
Abbiamo due attività fisse, a livello nazionale: una per le questioni relative ai servizi pubblici – i trasporti, le bollette, tutto quello che riguarda l’ambito del consumatore-utente – e una solo riguardo al tema della salute, su cui noi siamo molto forti e a proposito del quale riceviamo centinaia di richieste al giorno. 
Voglio far notare che si tratta di servizi totalmente gratuiti. Alcune organizzazioni richiedono agli utenti di essere iscritti per poter avere questo tipo di tutela. Secondo me non è giusto, l’iscrizione deve essere volontaria, non si può essere vincolati. Un cittadino che vuole essere sostenuto da noi, per esempio, ci dice: «Io ho ricevuto una bolletta, ma ci sono questi e questi problemi… cosa devo fare?». Allora gli si spiega che c’è un modulo da mandare all’ente, e gli si consiglia di mandarlo anche a noi cosicché l’ente possa vedere che il cittadino è tutelato… L’azione che noi facciamo con i cittadini è proprio quella di empowerment, cioè di offrire una scelta senza mai sostituirci a loro, ma soltanto spiegando cosa è possibile fare. 
A livello locale, abbiamo delle sedi distribuite in circa duecento città, negli altri casi ci sono dei numeri telefonici di riferimento. Per i problemi sanitari abbiamo molti centri dentro gli ospedali, con un orario preciso. In tutti i modi, la gente riesce a trovarci senza problemi, a giudicare da quanto ci telefona…



Qual è stato il suo tragitto personale? 
Io lavoravo al Ministero degli esteri, poi all’inizio degli anni Ottanta mi sono licenziata. È stato una specie di scandalo: ho lasciato volontariamente un lavoro di ruolo, senza avere ancora diritto alla pensione… Certo, mio marito mi ha sempre sostenuto: per tantissimi anni ho lavorato in questa associazione come volontaria, poi da una decina di anni siamo riusciti ad avere un nucleo di persone retribuite che lavorano a tempo pieno. 
Il fatto di essermi avvicinata al Buddismo mi è poi servito per avere la forza… questo è un lavoro bellissimo, però c’è sempre da lottare contro il senso comune che dice: «Ma chi te lo fa fare, non ce la si fa, e poi sei una donna, cosa credi, che ti stiano a sentire?…». A me la pratica buddista serve continuamente per allargare gli orizzonti, e per non buttarmi giù. Il mio ruolo è quello di far crescere tanta gente, e per fare questo devo avere un senso molto forte del valore della mia persona, perché altrimenti è molto difficile essere credibile agli occhi degli altri. Questa forza io non ce l’ho sempre, ci sono momenti di grandissimo sconforto. Allora mi metto davanti al Gohonzon per non perdere la speranza, per fare le cose per bene, per avere coraggio, per poterlo dare agli altri. Se tu non hai coraggio gli altri non ce lo possono avere.



Come si conciliano impegno civico e religione? 
L’impegno civico è una cosa importantissima, ma bisogna avere una propria dimensione spirituale e io l’ho trovata nell’incontro con Nichiren. Per tanti anni sono stata una militante cattolica: dirigente scout, ho coordinato un gruppo cattolico ecclesiale… poi a un certo punto non ho più trovato un senso in tutto questo. L’incontro con il Buddismo mi ha permesso di ricostruire un cammino spirituale che si era interrotto. 
Inoltre, trovo che il Buddismo sia bello per la forte unione tra la vita personale e la vita pubblica: la tua dimensione spirituale conta tantissimo anche rispetto alle cose concrete che fai. Questo è un aspetto che mi ha molto cambiato. L’esperienza mi ha mostrato che nell’impegno sociale ci si può anche perdere, ma se questo accade non si ha più niente da dare né da dire, non ci si rigenera mai. 
Voglio ricordare che sono diventata buddista grazie a mia figlia, verso la quale provo una riconoscenza infinita.



Come si finanzia l’associazione? 
Con finanziamenti privati. Che però hanno una caratteristica speciale: i finanziamenti non si legano a Cittadinanzattiva in generale, ma alle singole iniziative, perché noi chiediamo a ogni partner di sposare la causa che anima un certo particolare progetto che rientra nelle sue sfere di interesse. Per esempio, l’Unicredito è uno dei nostri sostenitori, e grazie a questo sostegno stiamo finanziando il progetto di revisione della correttezza dei contratti bancari. 
Per noi è importante che ogni soggetto che finanzia l’organizzazione creda nella cittadinanza d’impresa, cioè nel fatto che un’impresa che sostiene un’organizzazione di cittadini lo fa perché ha una responsabilità sociale. Abbiamo scelto di agire così, anche a costo di perdere dei partner: per esempio, avevamo un grosso soggetto privato, un’importante azienda farmaceutica, che sosteneva un programma per noi di grande interesse legato alla sanità. Ma quando per la terza volta abbiamo avuto segnalazioni di comportamenti veramente scorretti da parte di questa azienda, abbiamo preferito sospendere tutto. 
Ci tengo a dire che il nostro è un movimento poco “lamentoso”: noi protestiamo, anche tanto, abbiamo in corso una montagna di cause legali, però l’idea è sempre quella di rimuovere le situazioni scorrette, di cambiare quello che è possibile cambiare, grazie alla grinta dei cittadini.



&nbsp;

Professione: cittadini

Empowerment

Per la tutela dell’ambiente, la ricerca e la promozione di modi di vivere sostenibili

di Godelieve Cooymans

La Carta della Terra è un laboratorio di empowerment. È un insieme di dichiarazioni, sancite dai popoli della Terra, che riguardano i valori comuni relativi alla tutela della vita e dell’ambiente, la ricerca e la promozione di modi di vivere sostenibili. Che ispirano le persone a divenire coscienti del proprio potere e ad agire di conseguenza. La mostra Semi di cambiamento, realizzata dalla Soka Gakkai Internazionale, dimostra attraverso varie testimonianze la reale possibilità di diventare protagonisti del cambiamento 

«Guarda quanto gli individui possono fare la differenza quando prendono coscienza del proprio potere individuale e di quello degli altri, e decidono di metterlo in pratica agendo concretamente. Impara cosa si può fare per non sentirti impotente e diventare parte attiva nella risoluzione di questi problemi».
(«See how individuals are making a difference when they empower themselves and others through taking action. Learn what you can do to empower yourself and become part of the solution»).

Così inizia la Mostra Semi di cambiamento. La Carta della Terra e il potenziale umano, ideata e sviluppata dalla Soka Gakkai Internazionale e dall’Iniziativa della Carta della Terra come contributo al Summit mondiale sullo sviluppo sostenibile che si è tenuto a Johannesburg nell’agosto del 2002. Ultimamente la mostra è stata aggiornata e ha cominciato il suo giro per il mondo partendo dall’Inghilterra per poi atterrare in Italia a fine giugno, durante il convegno internazionale La Carta della Terra in azione, nella bellissima città di Urbino.
Scopo principale dei tredici pannelli coloratissimi che la compongono è far conoscere a giovani e adulti i principi della Carta della Terra e di dare a tutti il senso di empowerment: io posso fare la differenza, io posso fare qualcosa, anche nel mio piccolo. Ma come? Cosa è questa Carta della Terra? Da dove nasce? Un breve excursus storico può dare risposta a queste domande e ci può far scoprire che la Carta della Terra intrinsecamente più che un documento è un processo di empowerment. 
La Carta della Terra è essenzialmente un trattato sancito tra popoli. Nasce dalla collaborazione del Consiglio della Terra (Earth Council), costituito in seguito al Summit delle Nazioni Unite sull’ambiente e lo sviluppo di Rio de Janeiro (1992), con la Croce Verde internazionale (Green Cross International), organismo attento alle tematiche ecologiche guidato dall’ex presidente dell’URSS Michail Gorbaciov. Altri promotori fondamentali sono stati Ruud Lubbers, all’epoca primo ministro dei Paesi Bassi e attualmente Alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati, l’ambasciatore algerino Mohamed Sahnoun che svolse la funzione di direttore esecutivo del progetto durante la fase iniziale, e Jim MacNeill, ex segretario generale della UNWCED (Commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo delle Nazioni Unite).
All’inizio del 1997, l’Earth Council e la Green Cross International istituirono la Commissione per la Carta della Terra. I cinque co-presidenti e i membri della Commissione furono scelti in modo da rappresentare le principali regioni del mondo: Kamla Chowdhry per l’Asia e il Pacifico; Michail Gorbaciov e Ruud Lubbers per l’Europa; Mercedes Sosa per l’America Latina e i Caraibi; Maurice F. Strong per il Nord America; Amadou Toumani Tourè e la principessa Basma Bint Talal per l’Africa e il Medio Oriente. Il segretariato della Commissione fu stabilito presso l’Earth Council in Costa Rica sotto la guida del direttore esecutivo dell’Earth Council, il filippino Maximo Kalaw. Fu invitato a dirigere il processo di redazione Steven Rockefeller, professore di religione ed etica presso il Middlebury College degli Stati Uniti, e fu istituito un comitato internazionale di stesura.
Per arrivare alla versione finale della Carta della Terra, emessa il 24 marzo del 2000, furono necessari dieci anni di consultazioni un po’ in tutto il mondo. Scopo di queste consultazioni era promuovere il dialogo globale sui valori comuni e delineare l’emergente consenso mondiale riguardo ai principi di tutela ambientale e di stili di vita sostenibili. Vari governi presentarono le loro raccomandazioni, moltissime organizzazioni non governative, tra cui gruppi che rappresentavano le principali fedi religiose, si interessarono attivamente alla definizione del progetto. La Soka Gakkai Internazionale, sotto la guida del suo presidente Daisaku Ikeda, fu coinvolta dall’inizio, dal 1997.
Prima di cominciare era stato già raggiunto un accordo generale su alcuni criteri da seguire. Si era stabilito, infatti, che la Carta dovesse essere: una dichiarazione di principi etici fondamentali per la conservazione dell’ambiente e lo sviluppo sostenibile e che tali principi dovessero essere di significato duraturo, ampiamente condivisi dai popoli di ogni razza, cultura, religione e tradizione ideologica; relativamente breve e concisa; un documento con una prospettiva olistica e una visione etica e spirituale; redatta in un linguaggio ispiratore, chiaro, estremamente valido e comprensibile in tutte le lingue; una dichiarazione che aggiungesse nuovi e significativi valori a quello che era già stato espresso in documenti attinenti.
Di grande importanza per la formulazione finale della Carta sono stati i confronti e i dibattiti tra gruppi delle comunità locali, promossi in più di quaranta paesi del mondo, come base di una nuova etica ecologica mondiale. I suoi principi sono stati incorporati in workshop, tavole rotonde, curricula scolastici e conferenze, al fine di motivare la gente a realizzare i propri sogni.
Ma è un processo che continua. A oggi ci sono nel mondo più di cinquanta comitati nazionali per la Carta della Terra. In varie parti del pianeta vengono regolarmente organizzati vertici della Comunità per la Carta della Terra e conferenze per fornire esempi pratici e assistenza a chi cerca di implementare i principi e l’etica della Carta all’interno del proprio ambiente, che sia governo, scuola, azienda o famiglia.
L’8 giugno 2001 la Carta della Terra è stata presentata formalmente in Italia da Michail Gorbaciov a Urbino, la prima città del Rinascimento e simbolo di un nuovo modo di vita sostenibile.
Le ripercussioni della Carta della Terra sono radicali e sconvolgenti a tutti i livelli: nelle abitudini e nella ridefinizione della qualità della vita, nell’economia e nello sviluppo tecnologico, nell’architettura bioetica, nella visione del mondo e nell’azione politica, nella pedagogia e nella programmazione curriculare degli studi.

La Soka Gakkai Internazionale è stata coinvolta nella Carta della Terra per la prima volta nel 1997. All’inizio membri della SGI in America hanno organizzato numerose consultazioni per la formulazione del testo, come anche il Centro di ricerca di Boston per il XXI secolo affiliato alla SGI. Daisaku Ikeda ha sempre promosso la Carta nelle sue Proposte di pace degli ultimi sei anni, e membri della SGI in più di venti paesi sono coinvolti oggi in numerose attività di promozione e utilizzo della Carta della Terra nelle scuole e nella società, collaborando con altre ONG. Attualmente la SGI è diventata partner ufficiale del Comitato per la preparazione di proposte e materiali per l’implementazione della Carta della Terra, formalizzato in conclusione del Summit di Johannesburg. Come contributo primario a questo Comitato la SGI ha preparato – e sta tutt’ora preparando – materiali educativi e promozionali e di ampliamento della consapevolezza pubblica.
Nella sua proposta inviata al Summit di Johannesburg (vedi Buddismo e Società, n. 94, p. 6) e accettata dall’UNESCO, Daisaku Ikeda sottolinea tre elementi chiave per l’educazione: conoscere, riflettere e dare potere (empower). Dice: «Penso che il decennio di educazione allo sviluppo sostenibile dovrebbe essere promosso tenendo presenti i seguenti scopi: conoscere e approfondire la nostra consapevolezza delle questioni e delle realtà ambientali; riflettere sulle nostre modalità di vita, rinnovando quelle a favore della sostenibilità; dare alle persone il potere (to empower) di intraprendere azioni concrete dirette alla risoluzione delle questioni che stiamo affrontando».
Anche l’Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai sta svolgendo attività educative per diffondere i principi della Carta della Terra attraverso forum di discussione con studenti delle scuole medie e superiori. Quando una persona viene messa a conoscenza di questi principi e aiutata a metterli in pratica nella sua vita quotidiana, scopre in maniera del tutto naturale quanto potere ha di cambiare la situazione nel suo ambiente, di mettere a frutto il suo potenziale e prendere l’iniziativa per un cambiamento.

RIFERIMENTI 
Elisabeth M. Ferrero e Joe Holland, Carta della Terra. Manuale di Riflessione per l’Azione, Edizioni Diabasis, Reggio Emilia 2003; isbn: 88 8103 390 9
http://www.earthcharter.org
http://www.cartadellaterra.it
http://www.mostradirittumani.it/forum
http://www.earthforum.org
http://www.greencrossinternational.it

&nbsp;

La Carta della Terra e il potenziale umano

Una famiglia creativa

Empowerment

MARIO LUZI
da Onore del vero (1957)

Nell’imminenza dei quarant’anni

Il pensiero m’insegue in questo borgo
cupo ove corre un vento d’altipiano
e il tuffo del rondone taglia il filo
sottile in lontananza dei monti.

Sono tra poco quarant’anni d’ansia,
d’uggia, d’ilarità improvvise, rapide
com’è rapida a marzo la ventata
che sparge luce e pioggia, son gli indugi,
lo strappo a mani tese dai miei cari,
dai miei luoghi, abitudini di anni
rotte a un tratto che devo ora comprendere.
L’albero di dolore scuote i rami...

Si sollevano gli anni alle mie spalle
a sciami. Non fu vano, è questa l’opera
che si compie ciascuno e tutti insieme
i vivi i morti, penetrare il mondo
opaco lungo vie chiare e cunicoli
fitti d’incontri effimeri e di perdite
o d’amore in amore o in uno solo
di padre in figlio fino a che sia limpido.

E detto questo posso incamminarmi
spedito tra l’eterna compresenza
del tutto nella vita nella morte,
sparire nella polvere o nel fuoco
se il fuoco oltre la fiamma dura ancora.

KARIN BOYE (1900-1941)

Certo che fa male

Certo che fa male, quando i boccioli si rompono.
Perché dovrebbe altrimenti esitare la primavera?
Perché tutta la nostra bruciante nostalgia
dovrebbe rimanere avvinta nel gelido pallore amaro?
Involucro fu il bocciolo, tutto l’inverno.
Cosa di nuovo ora consuma e spinge?
Certo che fa male, quando i boccioli si rompono,
male a ciò che cresce
male a ciò che racchiude.

Certo che è difficile quando le gocce cadono.
Tremano d’inquietudine pesanti, stanno sospese
si aggrappano al piccolo ramo si gonfiano, scivolano
il peso le trascina e provano ad aggrapparsi.
Difficile essere incerti, timorosi e divisi,
difficile sentire il profondo che trae, che chiama
e lì restare ancora e tremare soltanto
difficile voler stare
e volere cadere.

Allora, quando più niente aiuta
si rompono esultando i boccioli dell’albero,
allora, quando il timore non più trattiene,
cadono scintillando le gocce dal piccolo ramo,
dimenticano la vecchia paura del nuovo
dimenticano l’apprensione del viaggio -
conoscono in un attimo la più grande serenità
riposano in quella fiducia
che crea il mondo.

ANTONIO PORTA (1935-1989)

quello che è rimasto,
quello che resiste,
là sotto, tu lo vedi,
airone, sotto le montagne di macerie,
dentro i crateri delle bombe,
sotto le colline d’immondizia,
lì dove resiste, continua,
rinasce la semplice vita,
ultima, dimenticata, dileggiata
rimossa, ridotta a poltiglia
nella mente degli uomini,
la semplice vita,
il nascere e morire,
rinascere e volare via,
aprirsi, amare,
quello che è vivo, amore,
sotto la semina dell’odio

&nbsp;

Empowerment

Contenuto riservato agli abbonati